Vittorio Bachelet 40 anni dopo, di Stefano Ceccanti

Come ho vissuto il sacrificio di Vittorio Bachelet nel 1980’
Quello era il mio ultimo anno di liceo e l’omicidio di
Bachelet veniva dopo anni tormentati; in particolare era ancora dentro di noi
il terribile ricordo dei cinquantacinque giorni del rapimento di Aldo Moro e
della sua uccisione.
Quel cognome mi era noto per due degli ambienti che allora
con alcuni altri coetanei frequentavo assiduamente: il Movimento Studenti di
Azione Cattolica e il gruppo locale Jacques Maritain federato alla Lega
Democratica di Pietro Scoppola, Achille Ardigò e Paolo Giuntella.
Dal primo avevo imparato il senso non intimistico della
cosiddetta scelta religiosa implementata pochi anni prima da Bachelet, che
portava con sé la necessità di conoscere approfonditamente i documenti del
Concilio e la Costituzione, distinguendo, ma unendo in una doppia fedeltà, il
ruolo di credenti e quello di cittadini.
Dal secondo, soprattutto dallo splendido libro di Pietro
Scoppola “La proposta politica di De Gasperi”, uscito nel 1977, avevamo colto
alla luce del passato il senso degli anni della solidarietà nazionale: la
collaborazione resistenziale era durata troppo poco, lacerata allora dalla
Guerra Fredda, e c’era bisogno di un lavoro comune, non solo di Governo, ma
anche molecolare, per dare spessore a una base condivisa, emersa positivamente
nel riconoscimento di tutte le principali forze politiche della collocazione
atlantica e di quella europea, che consentisse l’alternanza. Quella che
Scoppola chiamava la “cultura dell’intesa”. Nel 1979 ad Arezzo si era svolto il
convegno della Lega democratica su “La terza fase e le istituzioni” che aveva
prospettato anche l’esigenza di accompagnare la possibile alternanza con
riforme della Seconda Parte della Costituzione.
Il senso di parole come distinzione, mediazione (nel doppio
significato verticale, tra principi e realtà, e orizzontale, tra posizioni
diverse), che segnano come spiegava Scoppola la liberazione umana come processo
aperto, dialogico, si pensi alle belle pagine del volumetto successivo sul 25
aprile), non era però del tutto condiviso. Proprio nel 1977 si era sviluppato
un eterogeneo movimento di protesta, che portava con sé esigenze ambigue,
alcune positive in chiave libertaria contro gli eccessi delle culture
doveristiche tradizionali che avevano strutturato il Paese, altre però
distruttive che avevano portato consenso alle frange terroristiche residue.
Gruppi che si ispiravano alla cultura della Rivoluzione, intesa come un punto fisso
di arrivo, da raggiungere a tutti i costi per via di imposizione, l’esatto
contrario del processo aperto di liberazione. Come ha spiegato Micheal Walzer in
“Esodo e rivoluzione” ci sono due modelli politici e teologici diversi a
seconda che si consideri la terra promessa da raggiungere come pura, o,
viceversa, da scegliere solo perché migliore di quella presente, senza pretesa
di perfezione. La violenza tendeva a opporre la Rivoluzione agli uomini che col
proprio riformismo incarnavano davvero la possibilità di Liberazione. Negando
la Liberazione dentro il sistema si illudevano di imporre la Rivoluzione.
All’idea di Costituente incompiuta, di un Governo delle forze popolari troppo
presto interrotto nel 1947 e da riprendere trent’anni dopo per consentire
un’alternanza non traumatica, si opponeva il mito della Resistenza tradita che
poteva compiersi solo con la Rivoluzione di una parte che si imponeva
all’altra.
In qualche modo, però, la contestazione alle idee di
distinzione, di mediazione, di doppia fedeltà era contestata anche nella
Chiesa. Quel cattolicesimo impersonato da Moro e Bachelet ad alcuni sembrava
datato, troppo elaborato, e non nel senso scontato in cui ovviamente nessuna
eredità non può essere solo passivamente ripetuta. Cosicché quando qualche
settimana dopo l’omicidio, per l’appunto a Pisa, il 24 e 25 maggio, esattamente
quarant’anni fa, in un convegno nazionale dei giovani della Lega Democratica
che presero il nome della “Rosa Bianca”, l’allora presidente della Fuci Giorgio
Tonini usò come parole chiave “mediazione culturale”, si ingenerò una dura
polemica ecclesiale sull’opportunità o meno di archiviare per intero
quell’eredità in nome di un approccio più immediato all’opzione religiosa, teso
a svalutare anche la stagione della solidarietà nazionale e l’appartenenza
comune alla Costituzione.. Come nella contestazione terroristica riviveva la
teoria della “Resistenza tradita” e la polemica estremista contro le forze di
sinistra che avevano progressivamente accettato la collocazione europea ed
atlantica, così nella Chiesa rivivevano alcune delle pulsioni intransigenti che
si erano manifestate al momento dell’approvazione della Costituzione, vista
come un cedimento ad altre impostazioni, delle elezioni municipali di Roma del
1952 con la cosiddetta operazione Sturzo, nelle dure opposizioni al primo
centro-sinistra e nelle riserve verso lo stesso Concilio. Giacché i piani sono
distinti, ma la connessione è sempre forte.
Due opposizioni del tutto diverse, niente affatto
assimilabili, ma entrambe tese a polarizzare, a privilegiare l’immediatezza
sulla mediazione, la propria Rivoluzione alla Liberazione comune, la propria
esperienza religiosa declinata in termini tradizionalistici come contrapposta
alla cittadinanza comune.
A tanti anni di distanza credo si possa legittimamente
rivendicare che invece quella via di Liberazione, nel segno della mediazione e
del riformismo, fosse l’unica portatrice di futuro, al netto della capacità di
ciascuno di noi di saperla rinnovare costantemente.
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