Un'umiliazione per il Pd

    Per definizione nei referendum non si va per il sottile, perché l’elettore non è un legislatore e non ha bisogno di conoscere tutti i distinguo necessari a fare una buona legge. Risponde su un’indicazione di fondo – ai politici di tradurla in normative. Nel caso dei due referendum sull’acqua i fronti sono chiarissimi: sì, cioè no alla possibilità di privatizzazione nei servizi di distribuzione, e no, cioè apertura all’ingresso dei privati. Lo slogan dei referendari e dell’ampia mobilitazione di questi giorni è inequivocabile: Sì all’acqua pubblica (lo leggiamo anche nei manifesti del Pd). Se il quorum sarà raggiunto e vincerà il sì, la volontà popolare avrà  espresso una scelta ‘cristallina’ per la gestione pubblica dei servizi (con valore anche retroattivo): le politiche delle amministrazioni locali e su piano nazionale dovranno adeguarsi in toto, perché ogni strategia di privatizzazione ‘virtuosamente’ liberalizzatrice e regolata (che corregga gli errori della normativa da abrogare) sarà percepita dall’opinione pubblica (e denunciata dalle forze politiche promotrici dei referendum) come un ‘tradimento’ della volontà popolare, un’abdicazione rispetto al principio dell’ “acqua pubblica” sbandierato  in campagna elettorale. In caso di vittoria del Sì non vedo perciò per il Pd  alcun margine político per  avanzare con il proprio disegno di legge di privatizzazione alternativa a quella della maggioranza, giocando l’esegesi delle norme contro la sostanza della volontà popolare (un Di Pietro trionfante non si lascerebbe sfuggire la ghiotta occasione di inchiodare il Pd alla mancanza di coerenza al mandato dell’elettorato).   Abbracciare la campagna del Sì è stata insomma una scelta tattica di brevissimo respiro, dettata dalla paura di essere scavalcati dalla piazza e da Di Pietro e dalla tentazione di non perdere un’occasione per dare una spallata alla maggioranza, che va in direzione opposta (e finisce per precluderla) a quella strategia politico-economica di liberalizzazioni e lotta ai monopoli che ha rappresentato  uno degli elementi forti di novità nella nascita del Pd e di cui, nella sua veste di ministro, è stato autorevole protagonista lo stesso Bersani. è stata una classica scelta di lotta e non di governo, che taglia il ramo della proposta política su cui si è seduti, e che qualunque sia l’esito del voto  si risolve per il Pd nell’umiliazione di essere forza trainata e non trainante del fronte progressista, aggravata da una poco onorevole dismissione propri principi di fondo.   Il servizio al partito che potrebbero e dovrebbero rendere i ‘riformisti’ che hanno giustamente denunciato l’errore di merito in relazione ai due referendum sarebbe quello di portare fino in fondo la propria battaglia: dire che “si può votare” sì a uno dei due quesiti come premessa all’introduzione  di una legislazione non alternativa a quella attuale ma al senso della battaglia refendaria è mancare il senso politico dell’intera vicenda  e cercare un compromesso con l’apparato (che vive delle rendite del pubblico privo di concorrenza) e la dirigenza, che taglia fuori  l’elettorato come interlocutore primario e diretto e che rischia di relegare chi lo compie nell’irrilevanza.  

Condividi Post

Commenti (0)