Un sì con disincanto, di Giorgio Armillei
Si avvicina il referendum confermativo sulla riduzione
del numero dei parlamentari. Sarebbe naturale trovare tutti i liberali,
conservatori e riformisti, dalla parte del no in ragione dell’intenzione
populista e illiberale della riforma. Ma come spesso accade anche il voto di
settembre non riguarda principalmente la policy di riforma costituzionale. Il
merito isolato dal contesto di politics non ha un peso decisivo. Vediamo perché.
Al netto di ogni altra considerazione di contesto, ridurre
il numero dei parlamentari può generare processi decisionali più efficienti (diminuisce
quella che Sartori chiamava la sterilità del processo decisionale) e spuntare
gli artigli delle lobby, ridimensionando in modo funzionale il loro peso nel
processo decisionale. Ovviamente tra efficienza e rappresentatività (effetti
delle decisioni sugli interessi degli elettori) c’è un trade off ma le
controindicazioni di una riduzione sono tutte superabili. Il nuovo rapporto
numerico elettori parlamentari a riforma confermata non sarebbe lontano da
quello di altri stati dell’Unione (Germania ad esempio) e comunque per la
Camera bassa dentro il cube root ratio, la regolarità empirica nel rapporto
numerico segnalata dai politologi. Il rischio di aree territoriali - e quello ancora
più grave di aree urbane - prive di rappresentanti è superabile con un accorto ridisegno
dei collegi elettorali. Un’operazione che può essere condotta sotto velo di
ignoranza: ad elezioni contendibili non conviene a nessuno rischiare di avere
territori privi di rappresentanti parlamentari, anche in presenza di fenomeni
sempre più limitati per altro di forte concentrazione territoriale del voto a
un singolo partito.
Il problema non è neppure la genesi della riforma. Le
intenzioni dei riformatori (il disprezzo populista verso la democrazia
rappresentativa) restano confinate in quel mood dell’opinione pubblica. D’altra
parte, la storia sofferta e piena di insuccessi delle riforme costituzionali
dalla fine degli anni settanta in poi ci ricorda che i riformisti hanno
costantemente pensato di inserire nella loro cassetta degli attrezzi la
ridefinizione della composizione numerica (e certo anche delle funzioni) delle
due Camere. Quello che conta sono in verità le trasformazioni oggettive del
regime parlamentare: cosa possono fare di più e di meglio le Camere a riforma
approvata? Trasformazioni che paradossalmente vanno nel senso opposto al mood
che ha sostenuto la genesi della riforma: il parlamento ne esce rafforzato
perché potenzialmente dotato di maggiore efficienza decisionale.
La questione è allora principalmente di politcs. Quali sono
gli effetti dell’esito del referendum sui rapporti di forza tra populisti e
liberali? Questo il punto. La linea dell’europeizzazione della politica
nazionale è stata tracciata: la maggioranza Von der Leyen e il recovery fund ne
costituiscono i punti di riferimento. L’esito del referendum è irrilevante
rispetto a questa linea? Direi di no. Una vittoria di un sì ad inequivocabile
marchio populista rischia di allontanare l’Italia da quella linea. Una vittoria
di un sì protetto da un cordone sanitario liberale al contrario mantiene il
paese su quel tracciato, consentendo allo stesso tempo di giocare sugli effetti
positivi della policy di riforma (vedi sopra) e di rimediare a quelli negativi:
se i liberali sono al tavolo dei vincitori la cosa sarà meno difficile.
Ma l’eventuale vittoria del no sarebbe al contrario un
inequivocabile e forte segnale liberale? Non necessariamente. Il no liberale
sarebbe certo limpido e coerente: solo riforme di sistema please, altrimenti si
finisce come per il titolo V del 2001 e la riforma della seconda camera. Un
argomento indiscutibilmente forte. Ma la polarizzazione dominante tra liberali
e populisti ha messo in ombra quel conservatorismo costituzionale che (da
ultimo nel 2016 e soprattutto a sinistra) non è tra le cause minori della
crescita del populismo in Italia. Il no potrebbe diventare una miscela di
conservatorismo costituzionale e successivo rigurgito populista, con le
posizioni liberali in minoranza tanto quanto lo possono essere quelle dei
liberali per il sì. Si tratterebbe così del terzo no degli elettori alle
riforme costituzionali alimentato da una campagna egemonica di allarmismo
costituzionale, fatta degli stessi ingredienti del 2006 e del 2016. Non sarebbe
un dato privo di effetti sulle possibili e necessarie future riforme che dovranno
prima o poi consentire al sistema politico italiano di allinearsi ai rendimenti
di quelli degli altri stati membri dell’Unione. E quindi all’Italia di contare
nelle forme e con i pesi giusti nella logica dell’europeizzazione.
Conviene però non farsi illusioni. Non c’è una scia
riformista post referendum alla quale i liberali possono accodarsi per
sviluppare quanto effettivamente possibile: correttivi razionalizzanti ai regolamenti
parlamentari, ritocco del bicameralismo, poteri dell’esecutivo per una razionalizzazione
della forma di governo parlamentare, legge elettorale coerente con il disegno
complessivo. Semplicemente perché almeno fino a nuove elezioni politiche i
rapporti di forza non lo consentono. Si può sfruttare il momentum per mettere
in cassaforte la riduzione del numero dei parlamentari come leva per rendere il
Parlamento più efficiente. E aprire quindi una finestra su un possibile futuro
di riforme. Ma lì ci si ferma, a parte i dettagli.
Quindi nervi saldi, buona legge elettorale proporzionale
che consenta l’espansione di una coalizione liberale europeizzata (in
condizioni di quasi emergenza costituzionale le leggi elettorali si fanno più
che mai per obiettivi partigiani e non sotto velo di ignoranza); piccoli
ritocchi necessitati (numero dei rappresentanti regionali nel collegio che
elegge il presidente della repubblica, quorum di garanzia per alcune decisioni);
e show down per gli appuntamenti del 2022 e 2023.
A meno che i liberali riformisti non siano in grado di
costruire una coalizione elettorale così forte da ridurre a minoranza populismi
di governo, populismi di opposizione, pericolosa contiguità di pezzi del PD al
M5s e mood antiparlamentare dell’opinione pubblica. Ma non vedo segnali
all’orizzonte. Per questo votare sì – con il dovuto disincanto – sembra la cosa
migliore da fare.
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