Ruini, la Chiesa cattolica, la politica italiana, di Giorgio Armillei

Non ho idea di quale possa essere l’influenza delle parole e dell’insegnamento di Camillo Ruini in questa fase della vita ecclesiale italiana e sullo scacchiere della politica populista. Forse non eccessiva, con tutta probabilità più debole rispetto a quella di cui era capace fino a qualche anno fa, certamente inferiore a quella (il ruinismo) che esercitò per venti anni sulla vita ecclesiale e politica del paese, dal Convegno ecclesiale di Loreto del 1985 fino all’effimero trionfo della legge sulla PMA e al Convegno ecclesiale di Verona del 2006. Sta di fatto che le parole di Ruini nell’intervista a Corriere della Sera del 3 novembre per un verso riaprono un dibattito mai compiutamente e convincentemente sviluppato sulla storia del cattolicesimo politico italiano dopo la fine della DC e la nascita dell’Ulivo prima e poi del PD. Per l’altro suscitano più di una perplessità, come se dal primo Ruini liberal conservatore emergesse ora un secondo Ruini clerico moderato.

Cominciamo con il suo giudizio sul suo governo della CEI. Nessun pentimento, dice Ruini. Il che appare anche abbastanza plausibile, considerando convinzione e carattere del personaggio. Pentimento sarebbe veramente troppo, revisione critica e riflessione storica potrebbero però giovare nella rilettura di quegli anni. Anni che hanno lasciato un segno tutt’altro che fecondo nella storia della Chiesa italiana. Anni che si aprirono all’insegna del protagonismo episcopale in base al quale – così letteralmente Ruini nella sua prima uscita come Presidente della CEI al suo primo Consiglio permanente – “la presenza pubblica della Chiesa in Italia per avere un ruolo nazionale deve essere esercitata in via principale soltanto dal corpo dei vescovi e quindi, nella pratica quotidiana, attraverso lo strumento della Conferenza episcopale”. In sostanza – aggiungiamo noi – dal suo Presidente. Di qui la formidabile centralizzazione pastorale e mediatica, a scapito del più faticoso e inclusivo cammino delle Chiese particolari, un punto sul quale si soffermarono con grande lucidità Antonio Acerbi e Giordano Frosini in un loro libro del 2006 sui Convegni ecclesiali da Roma 1976 a Verona 2006. Di qui il commissariamento del laicato cattolico e delle sue realtà organizzate, a cominciare dall’Azione cattolica, in palese e stridente contrasto con l’insegnamento sul laicato del magistero di Paolo VI. Anni che si chiudono prima simbolicamente con la riscrittura costituzionale della legge sulla PMA imposta dalle sentenze della Corte contro le venature illiberali di quel testo, del tutto coerenti per altro con l’interpretazione ruiniana della dottrina dei principi non negoziabili. Poi con l’infelice esperienza dei convegni di Todi, dai quali Ruini prese le distanze ma che in realtà non facevano che ripetere le venature clerico moderate della sua dottrina, seppure dovendo necessariamente allentare l’investitura verso il centrodestra berlusconiano. E poi con l’inizio del pontificato di Francesco che rappresentò la palese sconfitta del ruinismo in versione Chiesa universale.

Cosa resta di quegli anni? Non molto in verità. Una enorme debolezza del laicato cattolico, una dilagante spiritualizzazione individualistica della fede e una crescente difficoltà della Chiesa nel suo insieme a svolgere un ruolo fecondo ed efficace nella vita pubblica. Il punto è che la stella polare di Ruini in quegli anni era stata prevalentemente politica. A parole sostenitore del bipolarismo, nei fatti convinto che il primo obiettivo del cattolicesimo politico dovesse essere la chiusura a sinistra. Tutto il resto dipendeva da quella stella polare.

Il Ruini prevalentemente politico emerge paradossalmente anche dalla sua riflessione sul celibato. Fuori dai contesti nei quali si va ponendo la questione, il punto principale è oggi come evitare la clericalizzazione della Chiesa e come far crescere nella fede e nella maturità il laicato cattolico, i laici cristiani e basta, immunizzandoli dal consumismo religioso. Ancora una volta prevale invece l’interpretazione storico politica: prima viene la necessità di rispondere all’assedio delle correnti culturali e politiche contemporanee, poi viene - se viene - la riflessione ecclesiologica, lo sguardo di lungo periodo, la lettura dei segni dei tempi, il discernimento ecclesiale. Anche qui qualcosa di apparentemente distante da quanto Papa Francesco dice in Evangelii Gaudium, un po' il programma del suo pontificato. La Chiesa di Francesco può dire no alla rinuncia al celibato ma non certo con gli argomenti di Ruini.

Infine, l’apertura a Salvini e le parole sul ruolo della fede nello spazio pubblico. Qui in Ruini finisce con lo stagliarsi esattamente quel modello di relazione tra cristianesimo e società che Luca Diotallevi ha definito di neoclericalismo debole. Un modello nel quale non è in primo piano il cristianesimo come motore di pensiero e prassi di continua relativizzazione e rinnovamento dell’ordine sociale ma al contrario la sua funzione di disciplinamento sociale. Una funzione più facile ad esercitarsi in società omogenee e indifferenziate ma priva di fondamento in società ad alta differenziazione funzionale. Ruini cade in un errore categoriale vero e proprio: l’uso della religione da parte di Salvini è del tutto funzionale ad un’irrilevanza pratica del cristianesimo, trasformato in un bene religioso scambiabile sul mercato della comunicazione, cosa ben diversa dal rilievo pubblico della fede se con questo intendiamo non l’impossibile ricostruzione di una nuova cristianità ma “la messa in atto di tutte le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nelle realtà del mondo” come diceva Paolo VI nell’Evangelii Nuntiandi.

Mentre dunque a proposito della Chiesa italiana alla fine del XX secolo rinuncia a un sereno e attento itinerario di critica storica; mentre a proposito del celibato ignora la deriva clericale e si fa condizionare oltre misura dalla propria esperienza di presbitero e di vescovo; a proposito del cristianesimo nello spazio pubblico Ruini sbaglia del tutto la mira. L’impressione è che resti un figlio della società italiana degli anni Cinquanta, alle soglie della differenziazione e della secolarizzazione, lesto a coglierne alcuni dei successivi processi di cambiamento – la potenza della comunicazione mediatica – quanto lento a farne propri i movimenti di lunga durata. Per questo, prima ancora che per altro, cade in errore su Salvini e ripete il medesimo cliché che lo portò a schiacciarsi sul centrodestra negli anni della seconda Repubblica. Insomma, un vescovo duttile e spregiudicato che ha avuto il merito di giocare la partita del bipolarismo contro le rigidità ideologiche del cattolicesimo di sinistra ma che l’ha giocata più da democristiano conservatore che da Vescovo del post Concilio montiniano.

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