Responsabilità internazionale: sociologica, giuridica e istituzionale, di Stefano Ceccanti
Il titolo ci pone diverse questioni.
La prima è la differenza tra responsabilità sociologica e giuridica.
Credo di capire che si tratti della distinzione tra giudizi di valore (come i settori sociali più motivati vogliono affermare la responsabilità in termini etici) e di fatto (le concrete modalità di esercizio che si possono far valere nel diritto internazionale, un sistema prezioso anche se largamente imperfetto).
I primi ci servono a non accontentarci mai dei secondi e i secondi ci servono perché senza di essi la responsabilità gira comunque a vuoto.
La seconda è la questione relativa ai soggetti e con questa si entra direttamente nel tema. Di chi stiamo parlando?
Delle persone? Delle Ong? Degli Stati? Delle organizzazioni sovrastatali?
Procediamo secondo la logica della sussidiarietà.
Le singole persone, man mano che ci si allontana dalla dimensione locale, hanno uno scarso impatto, può essere imputata loro solo una responsabilità minima, anche se azioni personali coerenti contribuiscono significativamente a cambiamenti di mentalità, creano dinamiche molecolari.
Le Ong hanno un ruolo prezioso. Anche se nessuna realtà è priva di contraddizioni, la loro utilità, la loro responsabilità (anche se non legata ad elezioni) è dimostrata proprio dal fatto che negli ultimi anni sono soggette ad attacchi da parte di regimi solo parzialmente democratici, come quello ungherese, o da forze politiche con forti venature xenofobe che pur agiscono dentro democrazia consolidate, come la Lega di Salvini in Italia.
Indubbiamente la responsabilità degli Stati si è erosa ed in linea generale questo è un bene. Recentemente la Corte costituzionale italiana ha messo in discussione l’immunità degli Stati esteri rispetto alla giurisdizione civile di un altro Stato per i danni prodotti a causa dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi dai suoi organi nell’esercizio di poteri sovrani (nel caso specifico si trattava di azioni civili di risarcimento contro la Germania per le deportazioni, i lavori forzati e gli eccidi perpetrati dal Terzo Reich in Italia). Il mito dello Stato sovrano senza limiti è un mito che va nel senso dell’irresponsabilità.
“Il nazionalismo è la guerra”, ebbe a dire François Mitterrand e questo insegnamento non va mai dimenticato.
Per questo, prima di segnalare uno dei qualsiasi dei tanti limiti che hanno le organizzazioni sovrastatali, e molti ne hanno, dobbiamo sempre aver presente che senza di esse l’effettivo governo dei processi e dei conflitti sarebbe comunque decisamente più problematico.
Cosa sarebbe e cosa sarebbe stata questa nostra Europa senza istituzioni politiche comuni, senza un sistema di Corti, senza far parte di un’alleanza difensiva internazionale? Possiamo e dobbiamo certo insistere su una maggiore legittimazione degli organi di governo europeo, su una maggiore integrazione dei Paesi che hanno deciso di avere una moneta comune perché solo a questo livello si possono avere azioni realmente efficaci e responsabili ed anche le politiche migratorie e l’apertura al Sud del mondo possono essere effettivamente governate solo a livello sovranazionale. Altrimenti tutto si riduce ad una retorica di sovranità statuali impotenti, in un gioco a somma zero o addirittura a somma negativa.
E’ la sfida che ci vedrà impegnati in Europa a fine maggio, in queste grandi elezioni tra i portatori di paura e di speranza. Sappiamo bene quanti errori facciano e quanti limiti abbiano i portatori di speranza, ma sappiamo ben distinguerli, a cominciare dall’Italia, il Paese che oggi ci ospita, dai portatori di paura, da Salvini a Marine Le Pen, da Orban a Kaczynski, possiamo apprezzare sino in fondo quella nobiltà delle cause imperfette di cui parlava Emmanuel Mounier nella sua teoria dell’engagement. Dai nostri movimenti o comunque dal loro milieu sono passati Alcide De Gasperi e Robert Schuman, Tadeusz Mazowiecky e Louis Edmond Pettiti, Maria De Lourdes Pintasilgo e Gregorio Peces Barba, nonché Joaquin Ruiz-Gimenez. Questo ci impegna e ci colloca per un’integrazione più forte e migliore nella democrazia e nel diritto.
La rottura delle sovranità statali ha portato anche con sé i temi e i dilemmi dell’ingerenza umanitaria, della responsabilità per proteggere nell’imperfetto sistema delle Nazioni Unite, dove l’autorità legittima non gestisce direttamente l’uso della forza, dove il fine giusto deve comprendere anche un progetto per il futuro per i Paesi dove si possono decidere interventi di questa natura e dove la proporzionalità tra bene da difendere e male che si produce intervenendo deve essere sempre oggetto di attenta valutazione. Sono i criteri classici dell’insegnamento sociale della Chiesa, come definiti in particolare dopo il Concilio Vaticano II.
Il tema di questa rottura in nome dei diritti umani viene del resto da lontano, almeno dal Processo di Norimberga del 1945 contro i criminali nazisti. Uno strumento certo imperfetto, soprattutto perché espressione ex post dei Paesi vincitori della guerra.
Però da quella imperfezione, e grazie comunque ad essa, si è poi passati nel 2002, dopo i tribunali ad hoc sui crimini nella ex-Yugoslavia (1993) e sul Ruanda (1994) alla ben più complessa e adeguata Corte Penale Internazionale a L’Aja.
Anche se non tutti i paesi la riconoscono o ne sono membri, anche se le competenze della Corte sono limitati a crimini quali genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità e recentemente crimini di aggressione, appare evidente che l’esistenza della Corte è per molti paesi, ONG o persone un punto di riferimento per chiedere ed ottenere giustizia, ed avere riconosciuto lo statuto di vittima, passaggio necessario per le vittime di guerra e genocidi, affinché alla persecuzione non si aggiunga l’offesa dell’oblio.
Qual è allora la responsabilità internazionale che vogliamo affermare perfezionando queste realtà? Qual è la terra promessa che vogliamo raggiungere?
Ce lo spiega Micheal Walzer in “Esodo e rivoluzione”:
“L’Eden rappresenta la perfezione della natura e dell’uomo, mentre la terra promessa è solo un luogo migliore dell’Egitto..
Noi crediamo ancora..in quello che l’Esodo voleva insegnare..sul significato e la possibilità della politica e sulle sue giuste forme:
-primo, che ovunque si viva, probabilmente si vive in Egitto;
-secondo, che esiste un posto migliore, un mondo più attraente, una terra promessa;
-e terzo, che la strada che porta alla terra promessa attraversa il deserto. L’unico modo di raggiungerla è unirsi e marciare insieme.”
Incontro ex membri Jeci (Jeunesse Etudiante Chrétienne Internationale)
Roma 28 febbraio 2019
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