NO ai referendum sull'acqua. Soprattutto sulla scheda gialla.

Cosa contiene di così “mercatisticamente” pericoloso la regolamentazione attuale dei servizi pubblici locali che i referendari ci propongono di abrogare? Sì, perché di questo si tratta, ben al di là del servizio idrico. A cadere sotto il si del referendum sarebbe l’intera disciplina dei servizi pubblici locali - con l’eccezione di alcune normative di settore (elettricità, gas, farmacie, trasporto ferroviario regionale) che definiscono regimi particolari, in qualche caso decisamente protezionistici - oltre alla modalità di determinazione della tariffa dei servizi idrici. Questa regolamentazione, più volte rimaneggiata in un estenuante tira e molla tra difensori dei monopoli delle imprese partecipate dai comuni e sostenitori del mercato regolato, dice una cosa molto semplice. I servizi pubblici locali di rilevanza economica, cioè quei servizi di interesse generale che le pubbliche amministrazioni locali erogano al posto del libero mercato quando questo si dimostra incapace di farlo, sono attività imprenditoriali e come tali vanno trattate. E dunque vanno gestite da imprese. Le pubbliche amministrazioni non sono imprese e debbono dunque cercare imprese sul mercato in grado di farlo per loro. Oppure possono costituire esse stesse imprese con soci privati, anch’essi da trovare sul mercato, che abbiano capacità imprenditoriali e operative. Oppure, in casi residuali, possono costituire imprese a loro strettamente legate come se fossero propaggini dei loro uffici. Sempre rispettando i principi costituzionali e comunitari di pubblicità e trasparenza. Ovviamente per gestire in forma di impresa occorre investire. E per investire in modo efficiente occorre generare e misurare rendimenti. Rendimenti che debbono essere incorporati nel calcolo di determinazione delle tariffe. Esattamente ciò che il secondo referendum impedirebbe in modo del tutto irrazionale e dannoso per quanto riguarda il servizio idrico. Quale idea regge questo impianto generale che si vorrebbe cancellare? L’idea assai semplice per cui soggetti privati e imprese possono curare interessi di carattere generale, nel quadro di una regolamentazione pubblica, senza che ne risulti diminuito il ruolo di tutela degli utenti dei servizi. Anche i soggetti privati possono produrre beni pubblici. L’equazione tra interesse pubblico, bene pubblico e pubblica amministrazione è venuta meno da tempo. E la nostra costituzione, per altro ormai duttilmente intrecciata con il diritto comunitario, ne ha preso da sempre atto. Dove dovremmo andare a cercare l’attuazione del principio di sussidiarietà se non – tra l’altro - nella possibilità di regolamentare la fornitura privata di beni e servizi pubblici? La distinzione tra difesa dell’interesse pubblico alla produzione (e alla regolamentazione) del servizio e gestione del servizio affidata a soggetti privati non è forse alla base del sistema pubblico dell’istruzione? E’ forse l’istruzione un bene “mercatizzabile” più dell’acqua? Temo che il sì al referendum sui servizi pubblici locali e a quello sulla determinazione delle tariffe del servizio idrico, per certi versi molto più dannoso del primo, siano in realtà due sì ad un vecchio modo di vedere i rapporti tra società e amministrazione pubblica, nel quale l’amministrazione ha il monopolio dell’interesse pubblico. E nel quale remunerare il capitale investito torna ad essere un tabù. Con buona pace dell’efficienza degli stessi investimenti pubblici. Una vecchia idea di stato, in altri termini, erosa ormai dal basso e dall’alto. Un’idea che abbiamo sostituito anche nei nostri modi di pensare, che abbiamo poliarchicamente consegnato al passato, che abbiamo più volte constatato essere all’origine di molti ritardi e di molti mali. Perché tornare indietro?

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