La vocazione minoritaria di Elisabetta Gualmini (da La Stampa, 12.3.2013)

L’ostinata, surreale rincorsa a una «alleanza di combattimento» (già il nome è come il cigolio del gesso su una lavagna nera) con il M5S, l’unica forza politica che esclude per statuto l’offerta di stampelle a qualsiasi partito (figuriamoci a quella «classe politica non credibile che ha portato il paese alla devastazione» così l’on. Bonafede), la dice lunga. Difficile pensare che i pontieri attualmente all’opera possano salvare il salvabile. Nemmeno la diplomazia della senatrice Puppato, che eroicamente mira a un «governo di legislatura con il M5S della durata di 5 anni». Nemmeno i polverosi «appelli degli intellettuali», a giudicare dal successo di quello a favore di Bersani pochi mesi fa.   Viene il sospetto, ormai quasi una certezza, che gli ideologi della ditta democratica preferiscano uscire dalle secche in cui si sono impantanati imboccando definitivamente la strada, più maneggevole e rassicurante, del partito a vocazione minoritaria. Del partito che rinuncia a darsi programmi e una strategia per vincere le elezioni, preferendo difendere l’identità interna e i gruppi dirigenti, vecchi e nuovi, ad essa più fedeli. I «modelli» che i partiti possono scegliere sono diversi, come continua a insegnarci Angelo Panebianco. Tra i tanti, ci sono i partiti «di opposizione permanente», che anche mettendo nel conto la decrescita (dei consensi), preferiscono distribuire incentivi ai «lealisti» piuttosto che mettere a rischio rendite consolidate e gestire riti di passaggio dolorosi. è una strategia sempre disponibile, già seguita per lungo tempo dal Pci in un contesto proporzionale, così come dai comunisti francesi di Georges Marchais nel più insidioso contesto maggioritario della V Repubblica. Una visione settaria non troppo celata dal gruppo dei «giovani turchi» i quali, tra di loro, si raccontano che l’emorragia di consensi del Pd sarebbe stata causata da uno spostamento eccessivo del Pd a destra… Ipotesi bizzarra che per un verso cancella il ruolo di primo piano da essi stessi svolto nella segreteria Bersani, per un altro non si concilia con il fatto che mentre Sel, elettoralmente parlando, si è impietosamente dissolta, i voti del Pd sono andati a una formazione politica (il M5S) che i giovani turchi considerano reazionaria.  I democratici, in effetti, non si possono nemmeno crogiolare in un’altra attesa consolatoria. Che sia sufficiente la pura riedizione del Renzi n.1, quello di novembre, con al seguito stavolta anche qualche truppa del battaglione bersaniano in cerca di una nuova protezione. Dopo una sassata così violenta alla vetrata del Pd, servono coraggio, freddezza e carisma fuori misura, ma anche un solido progetto di governo. Per il quale mancano un paio di condizioni che sinora Renzi ha sempre potuto eludere. Chi può escludere che la pancia del Pd, dopo averlo accolto come salvatore in vista delle prossime elezioni, non gli riservi un trattamento simile a quello per Veltroni nel 2008? E chi può mai credere che le componenti del Pd (il 95%), fino ad oggi ostili al progetto del fiorentino, accetterebbero di diventare minoranza nei gruppi parlamentari della prossima legislatura?   Per rendere credibile quel progetto, Renzi dovrebbe insomma prima prendersi il partito. Stavolta, dovrebbe anche dare concreta dimostrazione che la sua furia rottamatrice non porti al potere un deserto desolante di competenze simile nella sostanza a quello esibito dai neofiti grillini: un altro dubbio che al momento non ha dissolto. Pensare di governare senza controllare il partito vuol già dire partire col piede sbagliato. Pensare di acquisire la leadership senza passare da primarie/congresso che ribaltino gli equilibri del 2009, sarebbe illusorio. Nei grandi partiti la lotta per la leadership passa per sanguinose ricalibrature interne in cui gli assetti preesistenti diventano minoranza e quelli nuovi maggioranza. In cui diverse immaginazioni del mondo si alternano tra di loro e sparisce, finalmente, ogni riluttanza al rischio. Mai come in questa fase le opportunità ci sono. Per guardare dritto il rinnovamento ed essere all’altezza dell’urlo disperato per un cambio di passo levatosi tra gli elettori. Ma Renzi, ce la farà?

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