La commissione dei saggi tra riforma e conservazione

Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Apparentemente le uniche inammissibili sono le posizioni estreme: “tutto netto e tutto senza sospetto non si truova mai”, dice il Machiavelli citato dai saggi. E quindi da un lato la convinzione di essere davanti a un risultato convincente, a una proposta organica di riforma della seconda parte della costituzione, il massimo compatibile con il quadro delle posizioni in campo. Dall'altro lo scetticismo per quello che appare un esercizio accademico, un superfluo catalogo per ricordare cose che sapevamo da tempo, fin dalla commissione Bozzi del 1985 o, peggio, fin dall’ordine del giorno Perassi in Assemblea Costituente. Un modo per far vincere i conservatori. Certamente il lavoro della commissione per le riforme costituzionali ed elettorali aveva davanti a sé non pochi ostacoli. Innanzi tutto un’atmosfera di conservatorismo costituzionale nella quale vive la gran parte della cultura costituzionalistica del paese, e in commissione assai pochi erano i politologi, i filosofi e gli economisti. In secondo luogo un mandato a scartamento ridotto, non una vera funzione redigente per lavorare al riparo delle pressioni esterne e presentare al Parlamento una proposta già confezionata con la quale avviare il procedimento legislativo di revisione costituzionale. D’altra parte la composizione stessa della commissione aveva abbondantemente mostrato l’abbandono di questa originaria prospettiva, quella che avrebbe avvicinato il percorso a quello intrapreso nel 1958 in Francia, ed evidenziato al contrario la sua funzione compilativa, di ricognizione. Infine una sotterranea ma inequivocabile tutela del Quirinale, fino al punto che era praticamente impossibile immaginare esiti della commissione contrastanti con l’orientamento del Presidente della Repubblica, pensiamo alla forma di governo. Conservatorismo, limitazioni nella missione e tutela quirinalizia hanno giocato i loro effetti previsti. E la commissione è restata entro quei binari. Più che come una commissione incaricata di rendere un’opinione al governo committente, si è mossa come il comitato direttivo di un’associazione di studiosi incaricata di rappresentare le posizioni in campo su un tema assegnato. Qualcuno pensa... Non sono mancate proposte... Molti degli intervenuti… Con queste formule introduttive si sono spesso rappresentati nella relazione finale i termini della discussione anziché, costantemente, con espressioni più autorevoli come: la commissione ritiene che… Ma tant’è. Nella ricerca del minimo comune denominatore  è inevitabile scendere un po’ di quota, scansare i punti problematici, evitare di contarsi. Tuttavia, alla fine, il risultato non manca. La Commissione ha raggiunto su alcuni dei temi discussi una convergenza ampia. Ma esattamente su cosa l’ha raggiunta? Cominciamo dai punti di forza. Uno su tutti: la caduta di un primo tabù. Semipresidenzialismo e premierato sono sdoganati, naturalmente il secondo molto più del primo. D’ora in poi sarà difficile nel dibattito pubblico trovare spazio per argomenti estremi sulla forma di governo. Qualcuno per la verità è ancora all’opera, nonostante tutto, su questo fronte radicale: basta leggere il commento di Federico Orlando su Europa del 20 settembre che tratteggia, a difesa dei poteri del Presidente della Repubblica, un improbabile inclinazione presidenzialista e sovranista dei saggi. Resta che, anche se qua e là nella relazione della commissione torna qualche concessione al più rigido dottrinarismo - ad esempio: chi l’ha detto che, come pensano alcuni saggi, la V Repubblica francese è plebiscitaria? - si potrà discutere di semipresidenzialismo e premierato senza scomuniche. Il gotha del costituzionalismo italiano ha certificato che se ne può parlare senza rischio per la democrazia. Non solo: una forma “mediana” di governo parlamentare del Primo ministro è anche vivamente raccomandata. Non è poco. Il secondo obiettivo messo a segno riguarda il bicameralismo. Una commissione non prende decisioni, lo sappiamo, ma diventa sempre più difficile per il Parlamento in carica ignorare un certificato di morte così inequivocabile nei confronti dell’attuale bicameralismo perfetto della nostra costituzione. Nessun Senato decreterà la propria soppressione ma tra soppressione e semplice conferma del quadro attuale, magari addolcita con una blanda riduzione del numero dei senatori, comincia a prendere consistenza la legittima aspettativa di una vera riforma: meno senatori, con compiti definiti e diversi da quelli dei deputati, eletti in modo appropriato rispetto alle nuove funzioni, in un Senato privo del rapporto fiduciario con il Governo. Un altro tabù che cade: il bicameralismo perfetto in funzione di raffreddamento e moderazione. Terzo passo avanti, il principio per cui la legge elettorale deve “produrre” e “investire” (il mandato elettorale) una maggioranza di governo di cui gli elettori possano valutare, preventivamente, la consistenza e la credibilità del leader. Con il corollario del necessario collegamento tra legge elettorale e forma di governo. Non è poco se pensiamo ai ripetuti e per molto tempo prevalenti richiami alla formazione esclusivamente parlamentare delle maggioranze e dei governi in nome di una ormai consunta dottrina della centralità del Parlamento e di una praticamente ormai scomparsa visione settecentesca della forma di governo parlamentare. Per non parlare delle teorie più estreme di implicita costituzionalità del solo modello proporzionalistico. Un ultimo tabù viene meno: la difesa ad oltranza del proporzionalismo. Cadono dunque, se riflettiamo con attenzione, tutti i tabù del “complesso del tiranno” che hanno segnato la seconda parte della nostra costituzione: parlamentarismo, bicameralismo perfetto, proporzionalismo. Un buon risultato senza dubbio. Perché dunque coltivare il sospetto del bicchiere mezzo vuoto? Molto dipende certo dalle aspettative, ma anche considerando i limiti strutturali della commissione e il soddisfacente lavoro di demolizione dei tabù, molte domande restano sul tavolo. Andiamo per ordine. D’accordo per il premierato. Ma resta intatta l'imponente batteria di poteri del Presidente della Repubblica che stona un po’ con una forma di governo primoministeriale. Si dirà: la commissione ha usato la formula del governo parlamentare del Primo ministro, dove il senso del compromesso è evidente. Si dirà: la proposta introduce un livello sufficiente di automatismo, dal lato della nomina come da quello dello scioglimento, che dovrebbe segnare un salto di qualità. Si dirà: il Quirinale ha sorvegliato non certo at arm’s lenght. Basti pensare al ruolo svolto da Violante. D’accordo, dovremo anche “pigliare quello per miglior partito”. Resta che la commissione non sceglie chiaramente tra modello spagnolo e tedesco a proposito del potere di scioglimento, strumento essenziale per “governare” maggioranze non compatte: in quei due Paesi non si fa esattamente la stessa cosa e, soprattutto, il sistema di partito ha un livello più alto di strutturazione rispetto al nostro. Il che ha non poche conseguenze nel rapporto tra Premier e sua maggioranza parlamentare. Come dice Vernon Bogdanor “il potere di scioglimento non è una minaccia verso un buon governo parlamentare; è uno dei suoi strumenti di tutela più importanti e assicura che il governo sia responsabile non solo nei confronti del Parlamento ma anche verso gli elettori”. Un limpido potere di scioglimento governativo è dunque un presupposto del premierato non un attentato al governo parlamentare del Primo ministro. Ma soprattutto la commissione non viene a capo del puzzle dei poteri del Presidente della Repubblica, al di là dello scioglimento: si pensi all’autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge di iniziativa governativa, al potere di emanazione dei decreti, allo stesso potere di nomina e revoca dei ministri, su proposta del Primo ministro. Sono note le vicende della dottrina dei poteri presidenziali a fisarmonica. E sono vicende che suggerivano una soluzione costituzionale ancora più rigida, a maggior ragione in un quadro di governo parlamentare del Primo ministro. D’accordo poi con la riforma del bicameralismo: ma cosa e chi devono rappresentare questi nuovi senatori? Gli interessi dei territori, così come fanno anche di fatto i deputati a partire dai loro collegi, o gli interessi dei governi locali e regionali? E dunque, come vanno eletti questi nuovi senatori? Sul punto, la commissione lascia aperte tutte le porte, con un grado di flessibilità che invece abbandona del tutto nella richiesta di rafforzamento dei poteri centrali rispetto a quelli regionali e locali. Consentendo ai primi di spostare i confini delle rispettive competenze anche a danno dei secondi quando lo richiedano l’unità giuridica ed economica della Repubblica, la realizzazione di programmi di interesse nazionale o di grandi riforme economico sociali, un linguaggio – quest’ultimo - un po’ da anni Quaranta. E ben al di là delle esigenze cogenti di consolidamento di bilancio e di quelle schiettamente regolatorie di apertura dei mercati.  Come dire, diamo allo stato una clausola di salvaguardia consentendogli di intervenire quando serve, ma mettiamo il Senato a guardiano del suo corretto utilizzo per evitare espropriazioni centralistiche delle competenze di Regioni e Comuni. Ottima idea, ma per farla funzionare è cruciale stabilire come si compone il Senato e, conseguentemente, quali giochi di coalizione produce al suo interno. Se sono – in ragione della sua modalità di composizione – giochi identici a quelli della Camera la frittata è fatta: il Senato dirà sì a qualsiasi sconfinamento deciso dalla Camera a vantaggio dei poteri statali. D'accordo infine con la legge elettorale. Ma perché sottoporsi alla piaga delle preferenze individuali, fonte di indebolimento della coesione dei partiti e delle coalizioni? Perché non seguire altre strade, tutte possibili e coerenti con il modello del governo parlamentare del Primo ministro, dal collegio uninominale alla lista bloccata corta? Tra riformisti e conservatori sembra finita dunque con un pareggio. E i conservatori giocavano in casa: onore quindi ai riformisti. Peccato che non sia prevista la partita di ritorno. Ora tocca al Parlamento e al Governo. Certo, le conclusioni qua e là maggioritarie della commissione potrebbero ridurre, quantomeno nell’arena dell’argomentazione pubblica, lo spazio di discrezionalità del Parlamento in sede di procedimento di revisione costituzionale. Il che è un punto estremamente importante e recupera un effetto non meramente compilativo del lavoro della commissione. E tuttavia l’impressione è come di un lavoro svolto con il freno a mano tirato, costretto a muoversi dentro parametri non sottoposti a libera discussione. Molti interventi lasciavano intravedere soluzioni più innovative. Forse si poteva fare di più.

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