Il PD e la diaspora dei cattodem, di Giorgio Armillei

L’area cattolico democratica del PD è attraversata da tensioni, tentativi di riposizionamento, movimenti che inseguono scissioni e così via. Non è certo la prima volta che i cattolici democratici percorrono strade diverse nel panorama del centrosinistra in Italia. Dalla fine degli anni Ottanta le cose vanno in questo modo: il primo segnale lo avemmo con la stagione referendaria dei primi anni Novanta, quelli sulla preferenza unica e sulla legge elettorale, quando una parte si trovò ad arroccarsi su posizioni di conservatorismo costituzionale mentre un’altra divenne l’anima della coalizione dei riformatori. Queste divergenze non avevano prodotto tuttavia incrinature sostanziali nella tenuta dell’etichetta: cattolicesimo democratico continuava a significare qualcosa di tutto sommato abbastanza definito e stabile. Una tradizione politico culturale legata da un lato alla riconciliazione tra Chiesa e democrazia e dall’altro all’appartenenza al grande e inclusivo paradigma dei trenta gloriosi, gli anni del successo keynesiano. Il cattolicesimo democratico aveva così trascinato la Chiesa fuori dall’equidistanza tra le forme di governo, incanalandone culturalmente l’incontro con la democrazia di massa alla metà del secolo. E allo stesso tempo aveva conferito un’anima modernizzatrice alla dottrina della sussidiarietà, quasi interamente fagocitata dalle tendenze del corporativismo illiberale, restando tuttavia distinto dalla tradizionale risposta liberale monoclasse. La fine del secolo breve e la fine del secolo socialdemocratico hanno però messo in discussione quella stabilità. La terza ondata democratica con la fine dei regimi autoritari tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta e il trionfo della democrazia liberale hanno praticamente estinto la prima delle due ragioni sociali del cattolicesimo democratico italiano. La fine dei gloriosi trenta, per effetto delle crisi inflattive degli anni Settanta e poi per l’esplosione congiunta di innovazione tecnologica e globalizzazione dei mercati, hanno consumato al contrario l’ancoraggio welfarista del cattolicesimo democratico. E così anche la seconda ragione sociale è venuta meno. Privo del doppio cemento dell’opzione democratica sul piano della politics e di quella socialdemocratica sul piano delle policy, il cattolicesimo democratico italiano ha trovato momentaneamente un obiettivo unificante nel progetto del partito democratico. L’assenza di quel doppio cemento è stata così per un po’ compensata dal PD: si potrebbe dire un sostituto funzionale della democrazia e del welfare ai fini dell’unità del mondo cattodem. Esaurito in qualche modo questo obiettivo, cominciano a venire alla luce tutte le divisioni che non hanno avuto lo spazio per emergere proprio in ragione di quei vincoli esterni. Si potrebbe dire che sta succedendo al cattolicesimo democratico quanto è successo all’antifascismo: due etichette costruite nell’atmosfera del Novecento che perdono la loro forza centripeta una volta evaporata quell’atmosfera. Come il cattolicesimo democratico storico, non quello delle dottrine politiche, finiva in qualche modo per contenere Sturzo e Dossetti così l’antifascismo aveva tenuto insieme De Gasperi e Togliatti. In entrambi i casi alleanze spurie. Vista in questa ottica di lunga durata l’attuale diaspora cattodem nel PD trova una sua giustificazione profonda che va ben oltre il gioco dei riposizionamenti in vista della competizione elettorale. In ragione del doppio vincolo (di politics e di policy) il cattolicesimo democratico italiano conteneva al suo interno spezzoni liberali riformisti di sinistra e spezzoni di statalismo dossettiano, sostenitori pragmatici del welfare come mezzo per ridurre le diseguaglianze e ideologi dello stato sociale come supremo riformatore del corpo sociale, seguaci della democrazia governante nel ridotto di una politica limitata e sostenitori della proporzionalizzazione della democrazia in regime di invasività sociale della politica, supporter della globalizzazione giuridica ed economica e fan del primato della politica in forma di stato, sostenitori dell’uso legittimo della forza per applicare il diritto internazionale e pacifisti più o meno assoluti, teorici dei sistemi sociali come sistemi aperti alla permanente ricerca di un ordine mai definitivo e teorici della società che si fonda su natura, norme e valori. Il doppio vincolo è venuto meno e il PD ha raggiunto un livello accettabile di istituzionalizzazione. Dal comune contenitore cattodem escono dunque due prodotti distinti che – dopo una lunga fase nella quale le convergenze hanno avuto la meglio sulle divergenze, complice in Italia l’assenza di un normale bipolarismo – manifestano una chiara polarità. Da un lato il filone del riformismo liberale di sinistra del cattolicesimo italiano e dall’altro quello del continuismo costituzionale e della rigida lettura, non priva di punte ideologiche, della prima parte della costituzione, si pensi al tema del rapporto tra l’economia di mercato, l’impresa e il lavoro. Come si può intuire facilmente dispute come quella sul jobs act e sull’art.18 dello statuto dei lavoratori trovano qui un chiaro inquadramento. Le distanze che riaffiorano trovano però un contesto esterno assai diverso da quello nel quale sono state tenute sott’acqua. Se quest’ultimo infatti si srotolava lungo l’asse destra sinistra così come concepito nel Novecento, da una parte la libertà e dell’altra l’eguaglianza, da una parte il mercato e dall’altra lo stato, e così via, il contesto attuale ha subito una torsione profonda, per effetto dei processi globali di cambiamento. A partire dalla fine dei governi del nuovo centro di Clinton, Blair e Schroeder una frattura ben più profonda si è lentamente ma costantemente insinuata nel terreno politico, affiancandosi con sempre maggiore forza a quella novecentesca tra destra e sinistra. E dando il via ad un’onda lunga di riallineamenti che, complice un sistema istituzionale moltiplicatore di innovazione come quello francese, ha generato il fenomeno Macron e – all’opposto – complice un clamoroso errore tattico dei Tories, ha generato il voto su Brexit. è la frattura tra apertura e chiusura, tra anywhere e somewhere, tra poliarchia e primato della politica, tra unionismo europeista e sovranismo statalista. Una frattura che Blair descrisse lucidamente nel 2007 con un pezzo su The Economist a commento dei suoi dieci anni di governo. La frattura che rende Lega, Movimento 5 stelle, Sinistra italiana, MDP e dintorni parte di uno stesso cluster. Siamo dunque di fronte alla fine della capacità denotativa dell’etichetta cattolico democratica? Probabilmente sì. Continuare ad usarla corrisponde sempre di più ad un’operazione che cela uno stiramento concettuale. Con il rischio di confondere descrizioni e tentativi di spiegazione. E così come la fine del secolo breve ha condotto alla fine dell’unità politica dei cattolici, giustificata per altro sulla base di un vincolo di sistema e non in maniera confessionale, così globalizzazione economica, politica e giuridica stanno sgretolando quella che potremmo chiamare l’unità politica dei cattolici democratici, tanto da far venire meno le ragioni dell’etichetta stessa. Tutto questo significa profetizzare ancora una volta l’irrilevanza dell’appartenenza ecclesiale per lo scenario politico? Sancire ancora una volta la scomparsa di un’identità cattolica e la rinuncia a costruire una prospettiva politica che veda i cattolici protagonisti? Ovviamente no. Conviene per chiarirsi, come diceva Pietro Scoppola, intendersi sull’identità. “Se si pensa all’identità come una categoria politica non è vero che i cattolici debbano per forza costruirla intorno alla loro appartenenza alla comunità ecclesiale e che non possano rinunciarvi. Non è mai esistita un’identità politica definitiva per i cristiani e per i cattolici. Se si pensa invece a una categoria dell’impegno, ad una strategia dei comportamenti in relazione ai valori della fede, mi sembra normale che non rinuncino a costruirla.” Il cattolicesimo politico al tempo della fine del cattolicesimo democratico. Qui sta una sfida nuova. Come dare senso alla relazione tra identità ecclesiale, identità collettiva e identità politica senza attingere ai modelli passati, non solo esauriti sul piano dottrinale ma del tutto inutilizzabili su quello culturale e generazionale, ma allo stesso tempo senza rinunciare a mettere a tema la relazione stessa? Confinare il cattolicesimo politico tutto entro i limiti della sola mediazione personale non sembra essere una soluzione che rafforza il perseguimento di “grandi ambizioni”, dicevamo in un post della scorsa estate. http://www.landino.it/2017/08/bassetti-i-cattolici-la-politica/ Siamo ancora lì.

Condividi Post

Commenti (0)