Identità e principi

Le democrazie liberali subiscono un duplice attacco. Da una parte il totalitarismo islamico utilizza la violenza per celebrare il suo disprezzo nei confronti della società aperta. Dall’altra il populismo totalitario utilizza la polverizzazione mediatica della sfera pubblica per vendere le sue campagne distruttive. Si tratta di attacchi che nascono dall’esclusione sociale, della povertà, del collasso del reddito delle classi medie nelle società aperte? Un sì non sarebbe una risposta del tutto convincente. L’attacco ha più profonde matrici ideologiche, si genera e si nutre rimandando a sistemi di credenze chiusi e totalitari, cioè a idee che si affidano ad autorità assolute, indisponibili al dialogo argomentativo, alimentati da élite lucidamente all’opera da anni. Dal terrorismo islamico a Trump, da Brexit a Grillo, da Le Pen a Salvini il format è lo stesso, pur ovviamente nella diversità dei contenuti e nella abissale distanza del ricorso alla violenza. Come dovrebbero reagire le democrazie liberali? La divaricazione nel ricorso alla violenza tra i diversi totalitarismi segna un discrimine cruciale nella modulazione delle risposte. Al primo attacco non si può che opporre forza a violenza. Il ricorso a dosi massicce di soft power non può non accompagnarsi ad una legittima difesa collettiva. Una difesa non priva di costi: il bilanciamento tra sicurezza e libertà sconta infatti il grado e la pericolosità della minaccia. Quando questi si fanno gravi le libertà personali pagano il prezzo e il canale di garanzia liberale si sposta dal campo dei divieti a quelli dei controlli. La difesa dell’ordine pubblico – che non è un interesse sostantivo ma la somma delle condizioni per l’esercizio dei diritti delle persone – prende così il sopravvento. Al fiume di semplificazioni mediatiche e al dilagare della sindrome accusatoria, quella per cui la dinamica della caccia al colpevole è lo schema base del confronto politico, che dominano il secondo attacco non si possono che opporre i fatti e i risultati delle policy conditi da un’efficace azione di comunicazione. Popolo contro élite, puro contro corrotto e così via hanno composto un amalgama che ha reso possibile di tutto, dall’ideologia della casta alla gogna mediatica, dall’illusorio isolazionismo trumpiano alla barzelletta della Brexit a costo zero per i britannici. Abbiamo però visto che i fatti non hanno la meglio. La politics of anger ha spesso il sopravvento, alimentata da élite - o da controélite - spregiudicate e abilissime in quanto a manipolazione ideologica dell’opinione pubblica. Molti dicono che tra i fatti e la suggestione della retorica totalitaria la seconda vince quando i fatti non sono ancorati ad un’identità, ad un noi. I remainers spiegavano i costi della Brexit: quanti avrebbero perso e cosa dall’uscita dalla UE. I leavers raccontavano l’identità britannica sfigurata dagli immigrati e la necessità di restituirgli dignità separandosi dall’UE. I leavers hanno vinto. In altre parole, se perdiamo la salda consapevolezza di chi siamo non riusciamo a dare forza a quello che facciamo. Ma cosa significa identità? Le democrazie liberali non hanno un pensiero chiuso dell’identità. Perfino Huntington che pure ha inventato lo scontro tra le civiltà, un macrofenomeno identitario, come chiave dei conflitti mondiali, metteva in fila i dubbi sul cosa sia l’identità e sul cosa farne. Innanzi tutto l’identità è sia individuale che collettiva e tra le due dimensioni c’è costante tensione. In secondo luogo l’identità è costruita e ricostruita socialmente cioè nell’interazione quotidiana, non è quindi un bene di cui si può fare semplicemente scorta. Terzo, individui e gruppi sociali hanno identità multiple. E infine l’identità nel conflitto sociale è anche un bene “utilizzabile” per obiettivi strategici non solo un presupposto del conflitto stesso. Si può giocare strumentalmente con l’identità e non solo esserne pervasi. Abbiamo dunque bisogno dell’identità e non solo della forza del diritto e di quella dei fatti. Dobbiamo però scavare ancora: quale identità? Il rifiuto di un pensiero chiuso dell’identità, il rifiuto cioè dell’ideologia dell’identità, ci apre strade praticabili sul piano teorico e su quello pratico? Possiamo accostare identità e principi? Occorre forse un’identità fabbricata con i principi della democrazia dei moderni e dei diritti fondamentali: l’identità della democrazia e del diritto, in altri termini. Quella che il cattolicesimo contemporaneo ha fatto sua con la svolta conciliare e con il cammino post conciliare, dalla Dignitatis Humanae alla Centesimus Annus. Un’identità nella quale debbono accasarsi le identità multiple di cui parla Huntington. L’identità dei principi ha però bisogno di una pedagogia collettiva che mescoli diritti e doveri. Il grande processo di socializzazione all’identità dei principi esige istituzioni, organizzazioni e interazioni tra persone. Chissà che non sia qui anche la risposta al dibattito di questi giorni sulla concessione della cittadinanza. Un dibattito nel quale, al netto delle speculazioni elettorali di breve periodo, ritroviamo gli allineamenti e le fratture di questo nostro tempo: da una parte la chiusura ideologica, dall’altre le istituzioni di una salda società aperta. Il discorso torna sempre lì.

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