I cattolici e l'antivirus liberale, di Giorgio Armillei

Ora che l’Unione europea ha imboccata la strada giusta -
policy europea per un problema europeo di policy, senza doversi trasformare in
quello che non vuole e non può essere, un superstato federale; senza doversi
scusare per la mancanza di legittimazione democratica che invece c’è eccome,
seppure con le forme e le modalità proprie di un livello di governo sovranazionale,
a dimostrazione del fatto che policy distributive si possono fare anche fuori
dei confini dello stato nazionale; senza
perdere tempo ma con i tempi e le modalità che il suo processo di policy gli
impone, un processo fortemente negoziale vista la sua governance
necessariamente policentrica; ma forse tendiamo a dimenticare il groviglio di
transazioni e negoziati delle decisioni di policy dei governi parlamentari
degli stati membri – ora dicevamo ci si può dedicare a un punto sul quale
troppo spesso si sorvola in nome dell’emergenza o della presunta prova provata
per la quale il covid-19 avrebbe svelato trucchi e inganni degli ultimi trenta
anni di dibattito intorno ai rapporti tra politica ed economia.
Il punto è formulabile in molti modi, ma possiamo metterla
così: posto che nel breve periodo tutto è programmaticamente transitorio, nel
medio periodo usciremo da questa crisi con società più aperte e più liberali o
con società più chiuse e più dirigiste? Per molti la risposta è semplice: il covid-19
chiude la sbornia della globalizzazione, già fiaccata dalla fine del momento
unipolare della politica internazionale e dalla crisi finanziaria e poi dei
debiti sovrani del primo decennio del secolo. Un uno-due definitivo. Per altri la
risposta è più complessa ma la ricetta è presto detta: puntare tutto sullo
stato che “deve dare nuova forma ai mercati, alle organizzazioni produttive, ai
rapporti sociali e di lavoro”, così Mariana Mazzucato. Altri con più ragionevole
prudenza, senza pregiudizi ideologici e con grande pragmatismo, si pongono non
solo domande sull’espansione della sfera statale come risposta alla recessione
economica ma soprattutto sulla qualità di questa espansione e sulla sua
intrinseca vocazione a trasformarsi da emergenziale in permanente, con la
conseguente formazione di rendite di lungo periodo. Scendono così il livello di
tolleranza del rischio e quello di apertura verso i processi di distruzione
creatrice: “se i politici sono in grado di garantire posti di lavoro e livelli
di reddito durante la crisi covid-19, molti non riusciranno capire perché non
ci debbano provare anche dopo”, si chiede The Economist. L’interventismo
statale crea in altri termini vantaggi e scappatoie nel gioco della
competizione che sopravvivono ben oltre la fine dell’emergenza e generano
coalizioni di interessi che ostacolano innovazione e crescita.
“La soluzione più conveniente non sempre è quella
liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere caso
per caso, di sorveglianza o di diretto esercizio statale o comunale o altro
ancora. […] Di fatto e in via tutt’affatto empirica, per lo più accade siano
sbagliati o pretestuosi i motivi dell’intervento, sicché il liberismo economico
spesso si raccomanda come ottima regola pratica”. Basterebbe questa citazione
di Luigi Einaudi per chiudere la partita, citazione che meriterebbe anche una
sorta di puntuale esegesi. Tanto per cominciare l’interventismo non deve
necessariamente assumere il carattere di gestione o di erogazione ma più sobriamente
riguardare la regolazione, specie se indipendente dai poteri dello stato apparato.
E anche quando passa dalla regolazione alla gestione non necessariamente
investe l’organizzazione statale essendo il sistema dei pubblici poteri ben più
articolato e complesso, a partire dai comuni. Ma non è questo il punto: le
pagine di Einaudi sono sempre dense di spunti teorici anche quando ospitate in
contesti giornalistici o di semplice controversia culturale. Il punto è che il
liberismo economico è proposto come “ottima regola pratica” per rimediare alle
inclinazioni pretestuose dell’interventismo pubblico - facile pensare ad
Alitalia o all’espansione del golden power governativo contro acquisizioni o
forniture frutto di operazioni di mercato - e non viceversa come qualcosa da
cui difendersi. In altri termini, accanto al fallimento del mercato non
dobbiamo dimenticare di dover fare i conti con il simmetrico e diverso
fallimento dello stato cui fare altrettanto vigorosamente fronte.
Accade così che in queste settimane di enorme preoccupazione
per l’efficacia delle politiche pubbliche di controllo dell’emergenza sanitaria
e di contrasto alla recessione economica, sia riemersa nell’arcipelago
cattolico la distanza tra chi concepisce liberismo ed economia di mercato come
istituzioni sociali capaci di generare crescita e ampliamento delle opportunità
e chi al contrario individua nella crisi da covid-19 una prova ulteriore del
loro drammatico fallimento. Due esempi mostrano come tra questi ultimi non si vada,
quanto meno nella discussione pubblica, troppo per il sottile. “La lezione
principale è che il modello liberista è il nemico numero uno” ci dice Stefano
Zamagni in una recente intervista. “La gente sta aprendo gli occhi” e smetterà
di confondere globalismo con globalizzazione e capitalismo con economia di
mercato. Gli fa eco, su un altro piano, Gael Giraud su Civiltà cattolica per il
quale il liberismo e la privatizzazione del sistema sanitario sono “alla base
dello smantellamento del servizio pubblico che ora si mostra per quello che è:
un’ideologia che uccide”.
Insomma, focalizzare il liberismo come nemico e tornare alla
statalizzazione del servizio sanitario sarebbero espressione di una sorta di “new
normal” con il quale non soltanto far fronte all’emergenza ma soprattutto
ricostruire un nuovo modello di regolazione sociale nel quale capitalismo e
mercato siano messi in condizione di non nuocere. Viene da chiedersi se in fin
dei conti questa crociata anti-liberista non spiani la strada al costituirsi di
quelle rendite di posizione che sono al contrario tra le più consistenti cause
di ritardo dei processi di innovazione e di crescita, presupposto per qualsiasi
politica redistributiva a meno di non voler scivolare su posizioni di
decrescita felice, dalle quali l’insegnamento sociale della Chiesa resta assai
lontano, anche con Papa Francesco benché in misura diversa, come lucidamente
riconosce lo stesso Latuoche.
In modo assai più equilibrato, e certo non sospettabile di
cedimenti verso il piano inclinato liberista, le considerazioni del 2018 della
Congregazione dottrina della fede – pur sviluppando una dura requisitoria della
finanziarizzazione dell’economia globale e dei vizi di sistema dell’industria
finanziaria – non mancano di sottolineare come il profitto “fattore
intrinsecamente necessario ad ogni sistema economico” accanto alle “dotazioni e
i mezzi di cui si avvalgono i mercati per potenziare le loro capacità
allocative” siano tutti moralmente ammissibili, purché incorporati in
istituzioni sociali rispettose della dignità della persona. Ma non ci sono
nemici né omicidi.
E infine se dunque non c’è solo un liberismo sempre nemico
non c’è neppure uno statalismo sempre amico. La verticalizzazione e la
statalizzazione nella gestione dell’emergenza sanitaria stanno alimentando una
spirale accentratrice che come dice Giuseppe De Rita ritroveremo all’opera
anche dopo la fine della situazione di emergenza. Due processi divergenti non
solo rispetto a principi di autonomia e di sussidiarietà ma anche e soprattutto
rispetto alla differenziazione strutturale e funzionale della realtà economica
del paese. In altre parole “la statalizzazione dell’epidemia e del suo
fronteggiamento sta rischiando di diventare una statalizzazione di una economia
sussidiata”.
La doppia sfida della pandemia e della recessione economica, se gestita in un’ottica prevalentemente statalista, rischia di far arretrare il livello di apertura e di integrazione delle nostre società. E di ricostruire un dominio della sfera politica (e al suo interno dello stato) sulle altre sfere sociali in una direzione opposta alla crescita delle società poliarchiche fondate sulla centralità della dimensione urbana e di quella sovranazionale cui abbiamo assistito negli ultimi 30 anni. Molti plaudono a questo esito, immaginando così di uscire dalla pandemia in direzione di un mondo più protetto e più giusto. L’impressione al contrario è che solo contando su più poliarchia, più globalizzazione, più Unione europea e più centralità delle città potremo fabbricare l’antivirus sociale di cui abbiamo bisogno.
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