I beni comuni tra regolazione e sussidiarietà
di Stefano Ceccanti*
Il sintagma beni comuni è stato utilizzato con tantissime sfumature e per identificare fenomeni molto diversi tra loro, incluse rivendicazioni sociali, riflessioni antropologiche e filosofiche.
L’acqua è un bene comune perché è soggetta a sovrautilizzo e cattivo utilizzo, in grado non solo di limitare l’uso di tutti coloro che ne avrebbero bisogno, ma anche di danneggiare e annientare il bene stesso; basti pensare a cosa succede nel caso delle falde acquifere sovrautilizzate o inquinate. In questi casi, come in tutti i casi dei beni comuni nella loro accezione classica, si vuole evitare la c.d. tragedia dei beni comuni (secondo la nota, almeno tra gli studiosi del tema, espressione di Hardin del 1968): quella del loro utilizzo sregolato. La razionalità economica umana sembra trovare – di fronte a questi beni – un forte limite: non considerare il possibile depauperamento e l’esaurimento della risorsa. Rimangono così danneggiati coloro che non riescono ad accaparrarsi la risorsa e le generazioni future.
Si arriva così al secondo nodo della questione. Quale autorità può evitare la tragedia annunciata dei beni comuni? Anche su questo Papa Francesco usa parole di ampia visuale: “Il crescente problema dei rifiuti marini e della protezione delle aree marine al di là delle frontiere nazionali continua a rappresentare una sfida speciale. In definitiva, abbiamo bisogno di un accordo sui regimi di governance per tutta la gamma dei cosiddetti beni comuni globali”. In altre parole, per beni comuni di portata transfrontaliera è necessaria una regolazione che sappia superare la tradizionale sovranità degli Stati, che parcellizzando i regimi di tutela e di governance dei beni comuni non riescono ad evitare la tragedia dei beni comuni. Da qui i richiami ad accordi internazionali sul clima e sull’ambiente che salgono da ampi settori della società, da ultimi il movimento del Fridays for future. Le grandi sfide ambientali che riguardano l’ecosistema mondiale e che minacciano seriamente i diritti fondamentali delle popolazioni più povere possono essere risolte solo adottando un approccio globale, che sappia imporre una cornice regolatoria ed obiettivi da attuare a livello dei singoli stati con discipline di dettaglio.
Si arriva dunque al terzo e ultimo punto: quale debba essere la governance propria dei beni comuni, e in particolare dell’acqua. Se correttamente finalizzata ai diritti della persona, la fruizione del bene comune acqua richiederebbe una regolazione pubblica destinata a contenere l’utilizzo eccessivo e quindi a preservare il bene per tutti e anche per le generazioni future. Senza poterci addentrare a fondo sugli aspetti economici implicati, è bene sottolineare che questo approccio non implica una statizzazione o pubblicizzazione del bene, che non è nemmeno auspicabile (come chiarito da ampia parte della dottrina in materia, a cominciare da Zamagni).
L’esigenza di tutela dei beni comuni non implica mettere in discussione il piano della titolarità pubblica o privata del bene. È in gioco infatti una terza categoria, un terzo genere che non si sostituisce alla dicotomia pubblico-privato ma vi si affianca, andando ad incidere sulla governance, sulle concrete modalità gestione del bene. Garantire il diritto all’accesso all’acqua non implica una gestione pubblica né tantomeno una proprietà pubblica. È su questo terreno molto scivoloso e molto difficilmente affrontabile con ricette semplicistiche che si deve muovere la riflessione sulle strategie per preservare un bene comune globale come l’acqua. Una regolazione che sappia tutelare anche le fasce meno abbienti della popolazione con tariffe agevolate, o che riesca ad evitare che ampie zone del mondo non riescano ad avere accesso all’acqua potabile, compromettendo i propri diritti fondamentali ad una esistenza libera, dignitosa e in salute.
*Estratto della Postfazione al volume “Il senso della sete. L’acqua tra diritti non scontati e urgenze geopolitiche” di Fausta Speranza
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