Giovanni Cominelli sull'Eco di Bergamo sui test Invalsi

Questa volta il 25% degli studenti delle superiori ha boicottato la somministrazione delle prove dell’Istituto nazionale di valutazione del sistema di istruzione (Invalsi). Perché? I test dell’Invalsi servono a raccogliere informazioni sulle “conoscenze” che i nostri ragazzi hanno acquisito in Italiano e in Matematica e sulle “competenze” relative, cioè sulla loro capacità di “usarle” nella vita. Raccolte con metodo omogeneo su scala nazionale e elaborate, sono inviate al Ministro, al Parlamento, ai mass media e alle singole scuole. L’intera società italiana e le sue istituzioni vengono poste di fronte ad una TAC della condizione educativa del Paese. Laddove si individuino delle criticità nel sistema o in una scuola, là si potrà intervenire tempestivamente. Nulla di più sensato di questa procedura, applicata in molti Paesi del mondo. Allora, perché i sindacati hanno indetto lo sciopero proprio il giorno delle prove Invalsi, costringendo a spostare la data, e perché insegnanti ostili e dirigenti indifferenti hanno convinto i ragazzi a boicottare le prove il giorno dopo? Perché al Nord, dove i risultati OCSE-PISA e Invalsi stanno sopra la media OCSE, il boicottaggio è stato minimo, mentre è stato massimo nel Centro-Sud, dove la scuola sta peggio e si trova sotto la media Ocse? Le ragioni sono almeno due. La prima è che nella battaglia politica contro il governo Renzi, condotta dai sindacati, sono state usate tutte le “armi di distruzione di massa”, compresa quella del sabotaggio della TAC periodica del sistema educativo nazionale. Che la “lastra” risulti incompleta o indecifrabile in qualche punto del Paese è considerata evidentemente una vittoria politica del sindacato. Si commenta da sé. L’altra ragione è più profonda. Fin da quando, alla fine degli anni ’90, si incominciò a progettare per l’Italia un sistema di valutazione esterna nazionale, che nei Paesi europei era in funzione già dagli anni ’80, si sviluppò un movimento di resistenza diffuso. Gli insegnanti vi intravedevano un giudizio sul proprio operato. Fioccarono le accuse: la scuola si trasforma in azienda, il metodo di indagine é pieno di pecche, i test sono ora troppo facili ora troppo difficili. Insomma, no alla valutazione! Nel corso di troppo lunghi quindici anni, la maggioranza degli insegnanti si è convinta che le prove Invalsi non sono un giudizio di Dio, ma un insieme di informazioni, di cui la scuola e il sistema debbono tener conto per migliorarsi. L’Invalsi è solo uno specchio. Romperlo per paura di vedere le impurità della pelle è strategia suicida. Tuttavia la resistenza continua, in forme più sofisticate: ridurre la valutazione esterna ad autovalutazione e a puro campionamento. Ci ha provato il Ministro Fioroni. Oppure: praticare il cheating, cioè rispondere ai test al posto dei propri alunni (ad Agrigento ha raggiunto il 66% delle risposte!). La peggiore: una volta restituiti i risultati della propria scuola, molti presidi li chiudono nei cassetti. La coscienza burocratica è a posto. Ma il messaggio di mala educacion inviato ai nostri figli è altamente distruttivo: nessuno deve rispondere al mondo, è il mondo che deve render conto a noi. E’ l’invito all’irresponsabilità e al narcisismo. Cosa possiamo fare, se dei dirigenti tiepidi e degli insegnanti renitenti, spalleggiati dai sindacati e da forze politiche conservatrici, di destra e di sinistra, costruiscono con gli studenti o le famiglie un fronte omertoso di opposizione contro lo Stato valutatore? Il tempo della moral suasion è finito. Occorre la legal coercion. Qui le colpe dei Ministri e dell’Amministrazione sono lampanti. Le prove sono sì obbligatorie, ma se uno non le fa o se i risultati non vengono resi pubblici, non scatta nessuna sanzione giuridica. Le prove Invalsi continuano a oscillare tra obbligo legale e volontarietà di fatto. Eppure, se la valutazione esterna è una funzione essenziale del sistema educativo, chi la sabota fa del male ai ragazzi e deve perciò essere estromesso dal sistema.

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