D'Alema e la Terza Via smarrita - di V.Ferla in Europa 08.12.2014
8 dicembre 2014 STAMPA D’Alema e la Terza Via smarrita Mentre Renzi cerca con le sue riforme di coniugare la libertà delle persone e delle imprese con la giustizia sociale e lo sviluppo, l'ex presidente del consiglio in un'intervista liquida l'esperienza di quindici anni fa e rilancia vecchi temi cari alla sinistra, e rischia di riproporre una ricetta fallimentare D'Alema e la Terza Via smarrita L’intervista pubblicata dal Corriere della Sera del 29 novembre scorso nella quale Massimo D’Alema ha liquidato la Terza Via che lo vide protagonista 15 anni fa, ripropone alcuni vecchi dilemmi della sinistra italiana. A che serve la cultura liberale e democratica? Quale rapporto con l’economia di mercato? Quale suddivisione del lavoro tra le forze della società civile e le istituzioni dello stato? leggi anche: ? Renzi tira dritto sul Jobs Act con aperture alla minoranza ? Ecco i numeri della vittoria di Renzi ? Quirinale, scommettiamo che ci va D'Alema? D’Alema era presidente del consiglio in carica in occasione del Convegno di Firenze del 1999 che riunì i leader della sinistra europea e mondiale in un momento in cui bisognava rispondere alla contemporanea crisi delle socialdemocrazie continentali e dell’ultraliberismo anglosassone. In quegli anni, sull’onda dell’esperienza dell’Ulivo in Italia e dell’affermazione di Clinton e Blair, egli sembrava aver sposato in modo entusiastico – e perfino un po’ sospetto – la cosiddetta Terza Via. Oggi, lo stesso D’Alema seppellisce quella scelta, dichiarandola di nessun significato per il presente. In sostanza, spiega l’ex premier, la Terza Via era soltanto una moda del momento, sentiero obbligato in un passaggio congiunturale della storia europea che egli stesso dovette imboccare, ma che è anche la fonte della crisi economica e sociale di questi anni. Emerge così, tutto intatto, il togliattismo tradizionale di quella sinistra che non si è mai riconciliata con l’economia di mercato e la cultura liberale tipiche delle democrazie occidentali. Una sinistra che magari eccezionalmente può scendere a patti con “il nemico”, ma che poi puntualmente ritorna ai propri tabù: come nel caso della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio che Bersani, allora segretario del partito, e Fassina, responsabile economia, approvarono e che oggi rimettono in discussione con la minaccia di un referendum. In sostanza – dice D’Alema citando Stiglitz, Krugman e Picketty – è tempo di rivalutare il ruolo dello stato: servono investimenti pubblici per alimentare la domanda interna e, allo stesso tempo, serve rilanciare la macchina pubblica con nuove riforme. Quest’ultimo punto è cruciale, ma vien da chiedersi perché, ogni volta che sono state tentate riforme serie della pubblica amministrazione, il partito abbia preferito difendere le ragioni dei sindacati del pubblico impiego. Il pensiero di D’Alema rivela in sostanza quel residuo culturale insuperabile che consegna definitivamente lui e la parte di Pd che egli ancora rappresenta al Novecento. Il motivo è semplice. La Terza Via non fu un episodio, ma un passaggio fondamentale verso un progressismo moderno e pragmatico, capace ancora di tutelare i più deboli, ma riconoscendo il valore dell’impresa privata e della società civile attiva. è possibile, in altri termini, garantire obiettivi di giustizia sociale liberando i cittadini dagli ostacoli che ne impediscono l’autorealizzazione personale e sociale e dalla morsa di burocrazie inefficienti. In questa ottica, lo stato, invece di intervenire e regolamentare in modo pervasivo, deve promuovere le capacità personali, i talenti e le iniziative private e sociali. Per l’Italia, schiacciata da spesa pubblica improduttiva, amministrazioni pubbliche inefficienti e debito pubblico sempre crescente, questa strada era – e resta – inevitabile. D’Alema rivendica alla sinistra il merito di aver privatizzato e liberalizzato in quegli anni. In parte è vero. Ma qualcosa deve essere andato storto a sinistra però, se, soltanto sette anni dopo il Convegno di Firenze, nel 2006, Pietro Ichino scriveva il testo I nullafacenti sull’improduttività del lavoro pubblico e sull’apartheid nel mondo del lavoro privato; se, otto anni dopo, nel 2007, Alesina e Giavazzi scrivevano il famoso volumetto Il liberismo è di sinistra; se, infine, una riforma delle pensioni in chiave europea è stata fatta soltanto due anni fa da Mario Monti ed Elsa Fornero. Non è un caso, dunque, che Matteo Renzi, con il programma delle primarie del 2012, abbia rilanciato quei temi da sfidante della “ditta”. E che oggi, da premier, stia cercando – attraverso la legge di stabilità e una serie di riforme in corso (lavoro, scuola, Pa) – di coniugare la libertà delle persone e delle imprese con la giustizia sociale e lo sviluppo nel quadro dei vincoli europei. Ovviamente, non è detto che ci riesca e per questo resta sotto osservazione. Ma pensare – come di nuovo fa D’Alema – di riproporre la ricetta fallimentare che ha affidato ad amministrazioni inefficaci il timone di politiche protezionistiche alimentate da una spesa pubblica improduttiva sarebbe davvero un passo indietro. Vittorino Ferla pubblicato in Europa l'8 dicembre 2014
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