Come e perché abbiamo tentato di conciliare tre principi fin lì inconciliabili - S.Ceccanti

Come e perché abbiamo tentato di conciliare tre principi fin lì inconciliabili di Stefano Ceccanti La premessa del rinnovamento della cultura politica a cui abbiamo cercato di contribuire a partire dagli anni ’80 non era in origine relativa ai temi istituzionali, ma ad un preciso posizionamento cultural-politico. Si trattava di mettere insieme tre elementi: 1- essere cattolici conciliari (chi entrava in associazioni come la Fuci era convinto che quelle realtà avessero anticipato il Concilio e che ora si trattasse di applicarlo con coraggio e fiducia); 2- avere cultura di governo nella Chiesa e nella società (come spiegava Pietro Scoppola ne “La nuova cristianità perduta”, la fedeltà conciliare andava separata da una cultura ribellistica e protestataria di parte del movimento del ’68 poco sensibile alle mediazioni); 3- la collocazione ideale in un’area di centrosinistra a causa della passione per l'uguaglianza (senza negare la libertà), oltre la frattura storica tra laici e cattolici che nel secondo dopoguerra aveva costretto il sistema politico italiano in una tenaglia tra unità della sinistra con egemonia comunista e unità politica dei cattolici dall’altra. Nelle generazioni precedenti non era stato possibile mettere insieme tutti questi tre elementi. Tutti erano partiti dal punto 1, ma poi avevano dovuto scegliere tra il punto 2 e il punto 3. Detto in altri termini, o avevano accettato come insuperabile l’unità politica dentro la Dc (simpatizzando per le sue correnti di sinistra; era del resto la scelta del Papa del Concilio, che pure aveva presentato come regola nella Gaudium et Spes il pluralismo politico) o l’avevano rotta, ma abbandonando anche la cultura di governo (varie declinazioni minoritarie a sinistra). Quello che era stato possibile in altri Paesi, ad esempio in Francia e in quelli iberici, dove i nostri coetanei dei movimenti corrispondenti di Pax Romana avevano partecipato alla rinascita dei partiti socialisti riformisti (tra di essi l’attuale segretario generale dell’Onu António Guterres) sembrava impossibile da noi. Sembrava inevitabile dover sacrificare uno dei due elementi-chiave del nostro approccio. Il punto è che negli anni ’80 si comprende da più parti che questa trasformazione, questo avvicinamento dell’Italia ad altri sistemi europei, nessuno dei quali aveva né l’egemonia comunista a sinistra né l’unità politica dei cattolici, non poteva avvenire senza un cambio di paradigma in ambito elettorale e costituzionale, senza passare da regole che fotografavano passivamente le preferenze degli elettori a regole concepite come un trasformatore di energia (Duverger), che dessero quindi a tutti i livelli al cittadino il diritto di arbitro tra proposte alternative di Governo, tanto per richiamare Roberto Ruffilli. Ovviamente questo compito era più facile sul piano comunale, perché era sufficiente un intervento sulla legislazione ordinaria che fu deciso nel 1993; un po’ meno semplice sul piano regionale, dove furono necessari due interventi, uno elettorale nel 1995 e uno costituzionale nel 1999; ed uno più complicato sul piano nazionale dove questo obiettivo non è perseguibile senza eliminare il doppio rapporto fiduciario che espone al forte rischio di maggioranze diverse, verificatosi in ben quattro casi su sei dal 1994. Anzi, questo ruolo decisivo della variabile istituzionale (le istituzioni non sono tutto, ma sono decisivi freni e acceleratori dei processi politici) è persino diventato sul lungo termine l’elemento che identifica con maggiore chiarezza la cultura politica di una generazione, anche più degli specifici posizionamenti politici che risentono di più della qualità dell’offerta nelle varie fasi storiche.

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