Calenda? Abbiamo già dato

Il Foglio ha pubblicato mercoledì scorso un lunghissimo intervento nel quale Carlo Calenda mette nero su bianco un’analisi delle policy più recenti, una visione di medio termine e non ultimo un giudizio sul PD di Renzi. L’ambizione non è meno evidente di quella che a suo tempo Renzi pose a base della sua scalata al vertice del PD. Utile dunque tentare una ricognizione ravvicinata delle cose scritte da Calenda. Non tanto per misurarne la distanza da Renzi – che c’è ed è anche consistente – quanto per cercare di capirne di più, sia sul lato della politics che su quello delle policy. Tanto per cominciare Calenda liquida riforma costituzionale e rottamazione in poche ma nette parole. E lo fa più che prendendo atto di un risultato, quello del referendum di dicembre, ridimensionando spazio ed efficacia di queste due strategie. E’ finito il tempo della rottamazione e si è chiusa la stagione delle riforme costituzionali. Non ci possiamo fare nulla ma non dobbiamo neppure starci troppo a pensare. Il che andrebbe anche bene se non fosse che della rottamazione e delle riforme c’era e c’è ancora bisogno proprio per realizzare politiche di riforma. Insomma senza nuova politics niente nuove policy. Ora è evidente che la connessione tra riforme del sistema decisionale, in cui sta anche e tutta intera la rottamazione, e politiche di riforma non sfugge a Calenda. Se la legge annuale sulla concorrenza, per fare un esempio, non va in porto da più di due anni e reca con sé il non brillante primato di essere la prima dal 2009 una qualche connessione con il sistema dei rapporti tra governo e sua maggioranza, tra legge elettorale e disciplina dei gruppi parlamentari, tra organizzazione dei lavori parlamentari e ruolo del governo, tra parlamentari e lobby ci dovrà pur essere. Non sfugge neppure a Calenda come ciò che per esigenze di comunicazione è diventato nel gergo politico la rottamazione, cioè una forzata circolazione del gruppo dirigente del PD allo scopo di metterlo in sintonia con le domande della maggioranza del paese, risponda a un’esigenza di sistema. Senza partiti strutturati con cultura di governo, cioè con gruppi dirigenti determinati a perseguire l’obiettivo di convincere e governare e non quello di inseguire e trattare, non c’è azione di governo che tenga. Il commissariamento semipresidenzialistico della forma di governo, sulla scia del quale Calenda si è mosso all’inizio della legislatura, oltre che frutto di forzature istituzionali sulle quali le opinioni divergono, non è certo da considerarsi - e qui le opinioni sono viceversa concordi - uno strumento fisiologico di funzionamento della democrazia parlamentare. E se dalla politics passiamo alle policy le questioni aperte non mancano. Liberismo pragmatico è un’etichetta un po’ intellettualistica ma certo scaltra. Ricorda persino il pragmatismo liberale del primo Obama. Il piano industria 4.0 pretende per sé - volendo fare un esempio - la patente di liberismo pragmatico perché agisce orizzontalmente su tutto il settore industriale e non verticalmente facendo scelte al posto delle imprese e quindi del mercato nel suo insieme. Ma poi si torna sulle politiche settoriali, alle fragilità da proteggere, agli strumenti di difesa commerciale. Conclusione. Calenda fa il supertecnico tutto policy e niente politics ma il suo è un manifesto intriso di posizionamento politico. Le strizzatine d’occhio sono in tutte le direzioni. Quasi un terzismo 4.0: neutralizzare il conflitto per un governo degli interessi generali che il PD in primo luogo si deve incaricare di sostenere. Il paese ha già dato.

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