Appunti Feb 1989 Sul tema dell'alternanza - Ceccanti - Salvatori - Tonini

FEBBRAIO 1989 N.2 Appunti.di cultura e di politica Stefano Ceccanti Gianluca Salvatori Giorgio Tonini Angelo Bertani, su «Segnosette» del 24 gennaio scorso, esprime alcune «amichevoli ma tenaci perplessità» riguardo alle tesi da noi (e da altri) avanzate nel fascicolo di dicembre 1988 della rivista «Appunti di cultura e di politica», dedicato al tema dell'alternanza. Poiché solo pochi tra i lettori di «Segnosette» avranno avuto modo di avere tra le mani quel fascicolo, non possiamo che essere lieti dell'invito di Bertani ad aprire un dibattito su questi temi, in quanto ci offre l'occasione di proporre ad un pubblico più ampio - e per di più quello di cui ci sentiamo, e non da oggi, di far parte - il nostro ragionamento sulle prospettive della democrazia italiana. Un ragionamento sul quale non intendiamo assolutamente dogmatizzare e che avanziamo come provocazione ad un approfondimento della riflessione comune, guidati solo dalla convinzione, tante volte sentita riproporre da Lazzati, che l'unica vera via per «parta custodire» è quella di «nova semper quaerere». La verità di questo antico principio della sapienza patristica ci pare quanto mai evidente, per l'appunto ragionando sulla democrazia italiana. Non v'è infatti chi non veda come i valori su cui si fonda la Costituzione repubblicana, per la quale tanti pagarono prezzi altissimi nel ventennio fascista e nella Resistenza, e per la quale molti hanno sacrificato persino la vita, anche in anni a noi assai più vicini, corrano oggi il rischio di essere dispersi. E' sotto gli occhi di tutti la crescente impotenza della politica, la sua incapacità di governare e di guidare una società in tumultuoso sviluppo. Questa condizione è ormai così diffusa e radicata, da apparire sempre più normale, al punto che quanti ancora si ostinano a pensare alla politica come arte del buongoverno della città dell’uomo, vengono irrisi da chi cinicamente non ha più alcun pudore ad affermare che la politica è solo lotta per il potere e che il «potere logora solo chi non ce l’ha». Questa concezione della politica potrà essere pagata cara dal paese, che rischia di presentarsi all’appuntamento di una maggior integrazione europea, previsto per il 1993, più debole e più ingiusto. Basti pensare alla mole ormai gigantesca del debito pubblico e soprattutto alle ragioni per cui si è accumulato: non grandi investimenti per ammodernare il sistema, né l’eliminazione di gravi squilibri, a cominciare da quello Nord-Sud, bensì il sostegno ad una domanda interna sempre crescente di consumi privati. Un meccanismo infernale, che droga il paese, che premia la rendita parassitaria di chi vive di interessi sul debito, mentre penalizza il lavoro e inasprisce la condizione di chi è emarginato. Le regole giuridiche non sono strumenti tecnici Papa Giovanni ci ha tuttavia insegnato che i «profeti di sventura» fanno solo del male. E dunque ci sembra sterile e ingiusto far discendere da queste e da molte altre possibili argomentazioni, riguardo al cosiddetto «imbarbarimento» della vita sociale e politica, un giudizio di condanna morale – che rischierebbe di essere moralistico – di questo nostro paese. Indubbiamente, esistono gravi segnali di povertà etica della società italiana: e c’è da chiedersi quanto pesino, a tale riguardo, anche peccati di omissione da parte di noi credenti, tradizionalmente più disposti a emozionarci e a mobilitarci nella pur giusta difesa dei valori che concernono la vita privata, o, all’opposto, il destino planetario dell’umanità, che non ad impegnarci nel contribuire all’edificazione di basi morali condivise per una convivenza civile maturamente democratica. E' forse anzi proprio questo l'aspetto più «incompiuto» della Costituzione repubblicana, quello che maggiormente richiederebbe un impegno discreto, quotidiano, perseverante. E tuttavia non si può ignorare come qualunque società umana non possa fondarsi esclusivamente sulle regole morali, ma abbia bisogno di regole giuridiche, le quali, come ci siamo detti e abbiamo detto tante volte, non sono solo strumenti tecnici, ma implicano una pedagogia sociale. Ebbene, è nostra convinzione - per la verità neppure tanto originale - che alcune delle regole chiave sulle quali si regge la democrazia italiana siano oggi a tal punto invecchiate, da risultare fonti di una pedagogia sociale e politica negativa. Valga tra tutti l'esempio della legge elettorale. Il sistema attuale, esasperatamente proporzionale, favorisce la rappresentanza degli interessi particolari, con spiccate tendenze al particolarismo e al corporativismo, ostacolando invece la formazione di interessi generali e la focalizzazione su questi della dialettica politica. L'assenza dalla politica della «mediazione programmatica» Quel che è assente, o comunque accessorio, è la «mediazione programmatica», ossia il riferimento ai programmi di governo generale della società. Quest'opera di «mediazione programmatica» è totalmente delegata ai gruppi dirigenti - sempre più oligarchici - dei partiti, i quali, tanto più in epoca post-ideologica, si sentono svincolati da qualunque mandato degli elettori, rispetto a maggioranze e programmi di governo. In nome del principio delle «mani libere» e del «gioco a tutto campo», ci si può trovare ad avere governi nazionali, e soprattutto locali, diversissimi tra loro nell'arco della stessa legislatura. E' del tutto evidente come questa situazione limiti drasticamente la sovranità popolare, ridotta a distribuire le carte a giocatori del tutto deresponsabilizzati. Ed è altrettanto evidente come questo sistema accentui la distanza tra cittadini e classe politica e renda la politica un puro gioco di potere astratto, che prescinde dai problemi della società. Ma questo «vuoto di governo», ossia di potere legittimo esercitato in nome e per conto di una sovranità popolare che si è espressa a maggioranza per questa o quella formula e per questi o quei contenuti, finisce con l'essere riempito da un «potere nel vuoto», ossia da forme di arbitrio, da rendite di posizione, da concentrazioni di potere economico e dell'informazione, per non parlare dei poteri lobbistici, trasversali, occulti. La rappresentanza proporzionale esasperata e in definitiva illusoria Ci pare dunque si possa sostenere che per «parta custodire», ossia per tener fede ai valori della Costituzione repubblicana, si debba «nova quaerere», ossia cercare strumenti istituzionali e regole nuove che consentano un effettivo esercizio della sovranità popolare. Ciò significa che si deve essere disposti a sacrificare qualcosa sul fronte della rappresentanza proporzionale esasperata, e in definitiva illusoria, in nome dell'obiettivo di restituire all'elettorato il potere di scegliere le maggioranze, i governi, i programmi. E' precisamente questo ciò che, nel 1982, Ruffilli definiva «alternanza»: «E' da mettere in cantiere nel nostro paese - scriveva su «Il Mulino» n. 1/1982 la realizzazione di una democrazia dell'alternanza al potere delle forze politiche, sulla base dei risultati elettorali. Questo appare come un momento di rilievo per incanalare le contrastanti aspirazioni all'ordine e allo sviluppo nell'ambito di istituzioni in grado di coniugare decisione e controllo, bloccando semplificazioni terroristiche ed autoritarie della crescente complessità del sistema politico sociale». Con quest'ultima frase, Ruffilli individuava lucidamente un aspetto centrale del problema: in un contesto di crescente interdipendenza sovranazionale, sempre meno sostenibile risulterà l'anomalia del sistema politico italiano, causa più di debolezza che di forza per il nostro paese. L'omologazione della democrazia italiana a quelle degli altri grandi paesi occidentali sarà dunque inevitabile: si tratta di decidere se questo processo vedrà il paese attivo o passivo, se si realizzerà nel solco della Costituzione o contro di essa, se vedrà protagonisti i partiti tradizionali, opportunamente rinnovati, o le lobby trasversali, a sostegno di leadership carismatiche. «Quello che si impone - scriveva ancora Ruffilli nel 1987 - non è certo l'invito ad una specie di suicidio per la gran parte dei nostri partiti, in vista della realizzazione di un astratto bipartitismo all'anglosassone, bensì la disponibilità da parte dei partiti a darsi carico dell'esigenza di una razionalizzazione del multipartitismo, che consenta la formazione di una maggioranza di coalizione adeguatamente concordata, e la possibilità del ricambio della stessa. Ciò che richiede, fra l'altro, che venga potenziato il ruolo di un arbitro esterno, per così dire: e cioè il cittadino elettore, la fonte ultima della legittimazione in democrazia. E' questa, in ogni caso, la via per l'ulteriore consolidamento da noi della democrazia repubblicana, con l'avvicinamento ai modi di funzionamento ormai propri delle principali democrazie europeo-continentali». La democrazia compiuta è la democrazia dell'alternanza Ci sembra così di poter sostenere che quella che Aldo Moro chiamava «democrazia compiuta» sia necessariamente, in questa fase storica, una democrazia dell'alternanza. Declinato l'obiettivo, resta peraltro l'ardua questione di individuare la strada per raggiungerlo e si apre al contempo il delicato problema di immaginare un ruolo, in questo scenario nuovo, per la tradizione culturale dei cattolici democratici, nonché le conseguenze che esso avrà sulla missione della Chiesa. A questi interrogativi, anche per ragioni di spazio, non si potranno qui che dare risposte sommarie e schematiche. Molti segnali - il più macroscopico dei quali è stata la vicenda dell'abolizione, tolte poche eccezioni, del voto segreto alla Camera e al Senato, innovazione che indubbiamente va nella direzione della democrazia dell'alternanza - fanno ritenere che le riforme delle regole del gioco procederanno parallelamente ad un graduale ribaltamento dei rapporti di forza, all'interno della sinistra italiana, tra P.C.I. e P.S.I. Siamo anzi portati a ritenere che il P.S.I. sarà interessato a premere in direzione del cambiamento delle regole per accelerare questo processo di riequilibrio nei rapporti di forza elettorali. Queste ipotesi presentano evidentemente un elevato grado di aleatorietà: quel che veramente conta è stabilire un criterio di giudizio e di comportamento rispetto a questa vicenda decisiva per il futuro della democrazia italiana che è la contesa per l'egemonia sulla sinistra. A nostro avviso, il criterio principe non può che essere quello di incoraggiare e favorire quello tra i due contendenti che risulti maggiormente funzionale sul piano oggettivo, al rinnovamento della democrazia italiana nel senso dell'alternanza. Il ruolo dei cattolici democratici Questo dovrebbe essere, sin da oggi, il ruolo dei cattolici democratici, l'unico realmente fedele, in modo creativo e non nostalgico, a quella tradizione, sturziana, degasperiana e morotea, che ha sempre teso -e con successo - a porsi come elemento di punta nelle sintesi politiche che favorissero la crescita complessiva della democrazia italiana. Solo collocandosi in questo modo i cattolici democratici possono del resto evitare il rischio di finire appiattiti su una posizione conservatrice. Un rischio che può essere evitato, posto che non esistono, tanto più nella presente fase storica, possibili identificazioni meccaniche tra progresso e forze storiche della sinistra da un lato, e conservazione e forze alternative alla sinistra dall'altro. Questa identificazione era meccanica quando il conflitto politico rispecchiava direttamente il conflitto industriale tra lavoratori e borghesia. Oggi che il conflitto industriale non è più centrale e tanto meno esclusivo nel confronto politico, la competizione bipolare si va sempre più articolando su sintesi programmatiche complesse, non più riducibili all'alternativa schematica destra-sinistra. Di questi importanti cambiamenti, sono quotidianamente visibili i sintomi: basti pensare, per fare solo un esempio tratto dalla cronaca recente, al dibattito sulla droga, che ha visto il P.S.I. scavalcare la D.C. sulla «destra». Per i cattolici democratici esistono dunque, in uno scenario di alternanza, spazi certamente almeno non minori di quelli attuali (che peraltro sono tutt'altro che infiniti!) per influenzare in modo positivo la formazione delle decisioni politiche. La «scelta religiosa e pastorale» della Chiesa italiana (e dell'Azione Cattolica con essa) non può, d'altro canto, che trarre giovamento da una maggiore mobilità del quadro politico, che non potrà che evidenziare l'autonomia e l'indipendenza della comunità cristiana rispetto agli schieramenti partitici e rendere così più autorevole e credibile la stessa opera di evangelizzazione, di orientamento etico, di promozione umana. Una deideologizzazione del confronto politico non può infine che rendere effettivamente e pienamente realizzabile quel pluralismo delle opzioni politiche dei cattolici, sia pure verificato dentro la comunità, che fin qui è stato enunciato solo in astratto. Un pluralismo che non può essere temuto, se non da chi nutra una concezione ecclesiologica così temporalistica da ritenere che la comunione ecclesiale possa venir meno in presenza di mere divergenze tra fratelli nella fede su opinabili giudizi politici. Ci piace concludere facendo pienamente nostra una dichiarazione che il presidente Cananzi ha recentemente formulato nell'ambito di un'intervista al mensile «Jesus»: «Io credo che se Moro fosse ancora tra noi ci inciterebbe a guardare avanti insieme. Invece si guarda troppo spesso indietro e ci si lamenta. Così i problemi rimangono e si complicano. Non dico con questo che dobbiamo mettere da parte il passato. Ma un conto è esercitare la memoria storica, un altro è avere nostalgia». (Appunti. di cultura e di politica, n.2, Febbraio 1989, pp.22-26)

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