Ancora sul Concilio Vaticano II, di Giorgio Armillei e Stefano Ceccanti

Il contributo recente di Pietro De Marco alla ripresa del dibattito sul Concilio Vaticano II https://bit.ly/33RZT22 presenta molti spunti interessanti, problematizza criticità oggettive, si sforza di proporre una tassonomia innovativa delle posizioni e delle alternative interpretative, cercando di superare le contrapposizioni irrigidite e sterili. Tuttavia, il tentativo ricostruttivo non riesce ad uscire dagli schemi e non convince nelle sue conclusioni.

Ci sono molte ragioni per tenere aperta, al di là degli specialismi accademici, una discussione pubblica su interpretazione e recezione del Concilio. Ragioni pastorali, storiche e dottrinali che permettono a questa discussione di entrare a pieno titolo in un esercizio di discernimento ecclesiale che non è fatto di sola pastorale, di sola storia e di sola dottrina ma che mescola questi elementi allo scopo di alimentare una prassi ecclesiale. Anche per questo isolare i diversi livelli se può essere utile sul piano analitico diventa fortemente limitativo su quello pratico e trasforma la discussione e il discernimento in una sorta di disputa intellettuale per addetti ai lavori.

Innanzi tutto, ragioni pastorali. Il pontificato di Papa Francesco è decisamente orientato ad uno scongelamento di passaggi conciliari trascurati o sterilizzatii. Ne è manifesto programmatico la Evangelii Gaudium, basti pensare al tema della decentralizzazione nel costante cammino di riforma della Chiesa in relazione a Lumen Gentium. Come a proposito della coscienza morale lo è Amoris Laetitia in relazione a Gaudium et Spes. Poi ragioni storiche: il rapporto tra globalizzazione religiosa e cattolicesimo che il Concilio Vaticano II cominciava ad esprimere e tematizzare. E infine ragioni dottrinali: nelle società moderne ad elevata differenziazione sociale il cattolicesimo non è condannato alla privatizzazione ma non perché possa ancora ricorrere ad una postura neoconfessionale e dunque antimoderna ma perché di quella differenziazione è l’anima.

Per rincorrere e mettere a tema questi aspetti occorre però evitare semplificazioni. Una prima coincide con quella che potremmo definire un’ermeneutica della sottrazione o meglio ancora un’ermeneutica “cherry-picking”. Si sceglie di ignorare passaggi dei testi conciliari e prassi ecclesiali orientate da quei testi che agli occhi di una precomprensione orientata in senso antagonista sono etichettati come “colpi di mano” o come “innesti voluti con accanimento dalle minoranze”. In sostanza corpi estranei strumentalmente valorizzati da una “visione ideologica che si impone monopolisticamente” (Marchetto). Insomma, l’ideologia e la precomprensione stanno solo dalla parte di chi valorizza quei passaggi e scompaiono dalla parte di chi propone di ignorarli o sterilizzarli.

Una seconda è fatta della banalizzazione applicativa di un principio ermeneutico utile, quello del Concilio fatto di parole ma anche in sé evento, perché “parole ed eventi” si illuminano reciprocamente, che finisce con il travolgere le parole con l’evento, spingendo (questo sì) verso una privatizzazione dell’esperienza religiosa ed ecclesiale, decostruendo l’impianto schiettamente conciliare del pontificato di Paolo VI, per lasciare sul terreno solo l’erraticità delle esperienze di base e della pastorale degli stili di vita, nelle quali di ecclesiale nel senso di Evangelii Nuntiandi resta ben poco.

De Marco prova a sfuggire a questa tenaglia ma resta dentro uno schema binario, anche se trasformato in una tassonomia: critici vs promotori. Essere rispettosi della complessità pastorale, storica e dottrinale significa allora evitare opzioni metodologiche unilaterali, intrinsecamente innestate nella schema binario, come quella di erigere “l’ordine teologico ed ecclesiastico, tra l’enciclica di Pio X “Pascendi” e la fine del Vaticano […] a ordine paradigmatico della Chiesa moderna” entro il quale costruire una corretta ermeneutica del Concilio. O come quella paradossale di leggere il Concilio dentro l’orizzonte del Codice di diritto canonico, dimenticando l’essenziale socialità dell’esperienza giuridica e la non riducibilità del diritto ad un atto dell’autorità. È l’esperienza giuridica che viene letta dentro e in riferimento al Concilio e non viceversa.

Se di coordinate abbiamo bisogno, fuori delle dispute intellettuali, allora conviene prendere a riferimento il discorso di apertura del Concilio di Giovanni XXIII e quello di apertura della seconda sessione di Paolo Vi per costruire una cornice ermeneutica espressione “sincronica e diacronica” del Concilio, fatto esso stesso di storia e di parole, realtà essenzialmente ecclesiale, nella quale la comprensione di cose e parole cresce nella storia, impedendo ogni cristallizzazione ideologica. Ancora una volta è l’ermeneutica del “cherry-picking” a risultare estranea alla tradizione normativa della Chiesa che “è cosa ben diversa da uno status quo che bisognerebbe superare e nel contempo rispettare” (Congar).

Coordinate che ci spingono a prendere le distanze dai profeti di sventura, ora come all’inizio del Concilio, e ad assumere come chiave ermeneutica il rinnovamento della Chiesa cattolica nel quale la tradizione va spogliata di ogni “caduca e difettosa manifestazione”. Ecco perché volendo restare dentro questa ermeneutica dell’essenzialità della tradizione tutta intera, non abbiamo bisogno della riformulazione di un compromesso fondato su una tra le possibili ermeneutiche della continuità, un compromesso che si era dimostrato inefficace già prima di questo pontificato. Abbiamo invece bisogno che il riferimento alla continuità ermeneutica cesellata da Paolo VI e lo scongelamento di tutte le espressioni del rinnovamento conciliare praticati da Papa Francesco siano più coerenti e comprensive. E che questo scongelamento riesca a dire parole efficaci anche alla complessità europea e occidentale, sfuggendo al rischio di un globalismo che fa fatica a parlare alle sue stesse radici.

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