ancora su art. 19 dello Statuto Lav...

[media-credit id=97 align="alignleft" width="150"][/media-credit]I falsi amici della rappresentanza di Mario Grandi * da Conquiste del lavoro 11.1.2011 Era inevitabile che le più recenti vicende contrattuali della Fiat riaprissero il capitolo, per la verità mai chiuso, della rappresentanza sindacale a livello d'impresa. Era inevitabile poiché, in una situazione di dissenso tra i soggetti negoziatori di accordi aziendali dai contenuti fortemente controversi, riemergesse l'antico problema, antico quanto il nostro sistema sindacale postcorporativo, dei soggetti legittimati a sottoscrivere i predetti accordi in nome e per conto della maggioranza dei lavoratori e a renderli, in qualche misura, vincolanti per tutto il personale. Un tempo questi soggetti erano le commissioni interne, organismi unitari non sindacali rappresentativi di tutto il personale per via di mandato elettorale. Questi organismi furono, poi, sostituti, negli anni Settanta del secolo scorso, dalle rappresentanze elette (o designate) di fabbrica - i cosiddetti consigli di fabbrica - che assunsero compiti di negoziazione a livello aziendale, assieme ai sindacati locali di categoria. Si affermò, così, nel nostro sistema sindacale, una forma anomala di rappresentanza a livello d'impresa ispirata ad una logica diversa da quella degli organismi sindacali fuori dell'impresa: non logica associativa, ma logica elettorale. Due tipi di logiche incompatibili tra di loro. Di qui tutti i nostri guai in materia di rappresentanza sindacale. Nella situazione degli accordi Fiat, il rifiuto della Fiom di negoziare e di apporre la firma a testi contrattuali ritenuti lesivi di diritti indisponibili dei lavoratori, pone un problema di limiti al diritto di rappresentanza a livello aziendale, in quanto assicurato ai soli sindacati firmatari (secondo il disposto dell'art. 19 lett.b) dello Statuto dei lavoratori. La proposta di una firma puramente tecnica ai fini della possibilità di costituire rappresentanze aziendali è un esilarante escamotage, il cui rifiuto fa onore a chi non vi ha aderito. Non firmare un contratto è legittimo uso della libertà, ma non si può, poi, pretenderne l'applicazione di tutti i vantaggi. In un sistema di libera negoziazione collettiva, i soggetti contrattuali hanno sempre competenza a modificare le regolamentazioni collettive vigenti, quando ciò sia giustificato dalla natura e dalla rilevanza dei concreti interessi in gioco (difesa ed incremento dell'occupazione). Solo la negoziazione individuale incontra un limite nella indisponibilità dei diritti. Nei rapporti tra contratti collettivi, sia di pari livello che di livello diverso, è sempre possibile introdurre modifiche anche peggiorative. Quel che importa considerare è lo scambio contrattuale nel suo complesso, quel mix cioè di vantaggi e oneri che giustifica una certa disciplina contrattuale. Nella fattispecie degli accordi Fiat, di rilevanza decisiva è l'impegno dell'azienda agli investimenti e alla conservazione-incremento dell'occupazione (oltre che a benefici sul piano retributivo). Ma veniamo al punto critico. Il protocollo aggiuntivo all'accordo Mirafiori, in coerenza con l'art.19, lett. b dello Statuto, ma in dissenso con la "clausola di salvaguardia", di cui all'art. 8 dell'accordo interconfederale 20 dicembre 1993 sulla costituzione delle Rsu, consente alle (sole) organizzazioni sindacali firmatarie di costituire rappresentanze sindacali aziendali. La sinistra, che ha voluto la soppressione della lett. a) dell'art. 19 in nome del principio maggioritario, avrà modo ora di ravvedersi sulla stoltezza di questa improvvisa proposta. Accordo interconfederale del 1993? Non fa problema, poiché le parti firmatarie hanno optato, per il livello aziendale Fiat Mirafiori, per l'applicazione alternativa del citato art.19, sulla base di una presa d'atto dell'autoesclusione della Fiom dalla trattativa e dalla firma dell'accordo. La menzionata "clausola di salvaguardia", come tutto l'impianto barocco delle Rsu, presuppone l'unità del soggetto di rappresentanza, che è venuto meno, non priva le organizzazioni sindacali del potere alternativo di costituire rappresentanze sulla base della norma statutaria, ove ne ricorra - come ne ricorre - il requisito previsto (la firma di un contratto applicato nell'unità produttiva). Il rifiuto di firma da parte della Fiom, alla quale non è tolto il diritto di attività sindacale nel luogo di lavoro, non può impedire che gli altri sindacati firmatari si avvalgano della facoltà loro riconosciuta di costituire proprie rappresentanze aziendali. Un ultimo punto, ma il più delicato. Già spuntano le avances dei falsi amici della rappresentanza sindacale, come spuntano i funghi d'autunno. Sono i politici (o i tecnici prestati alla politica), che vorrebbero una rappresentanza sindacale possibilmente unitaria nella forma (la competizione tra i sindacati dà fastidio) ed elettorale-maggioritaria nel modo di formazione; fondata, cioè, sul voto di iscritti, non iscritti e dissenzienti, in base al concetto, ribadito anche recentemente da un dirigente della Fiom, che il sindacato non sono gli associati, ma i lavoratori. Farà bene anche a non prestarsi al gioco rischioso di un accordo (da tradurre, poi, in legge), che estenda al settore del lavoro privato ciò che in tema di rappresentanza è già previsto nel settore del lavoro pubblico, ove la contrattazione collettiva è regolata dalla legge. La specialità di questa disciplina non si presta ad essere applicata per estensione al settore privato. Anche a livello aziendale, la rappresentanza sindacale deve fondarsi sulla libertà associativa e sul pluralismo delle sue forme organizzative. Se debba essere in fatto unitaria o meno, se nella sua azione debba prevalere il principio maggioritario o quello prioritario, lo decidono soltanto le organizzazioni sindacali. La politica deve restare fuori da un campo di autonomia sociale, in cui non ha nulla da dire. * Emerito dell'Università di Bologna http://www.conquistedellavoro.it/cdl/it/servizi/l_analisi/info1269427182.htm

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