Lo strano bipolarismo che non c'è, di Giorgio Armillei

Il problema non è l’endorsement: la stampa anglosassone ce lo insegna. Il problema viene fuori quando le cose non vengono dette in modo chiaro ai lettori. Ecco perché la campagna avviata da domenica sera per creare uno sgabello ad un governo M5s è difficile da mandare giù. Grande stampa e media televisivi ammiccano in questa direzione: si distinguono qualche editorialista e qualche commentatore. Qualche altro - all’opposto – opta per una strana ingenuità ecumenica: facciamo il governo di tutti tanto in fondo le distanze sono accorciabili, la campagna elettorale è finita, si può tornare a ragionare. O per una pedagogia tecnocratica: vanno bene tutti gli estremismi retorici, tanto ciò che conta è soddisfare le esigenze stringenti dei mercati. Con quelle non si scherza. Ultima ma non certo meno influente, la truppa dei presidenzialisti senza presidenzialismo: è tutto un inno ai poteri a fisarmonica del Presidente della Repubblica, lui ci metterà una pezza. E giù con la storia delle incursioni presidenziali nella dinamica dei governi parlamentari. Sarebbe meglio essere chiari. Dopo anni di martellante campagna sommersa, la gran parte del sistema dei media ha ottenuto il suo scopo: rovesciare il tentativo del PD di Renzi e spianare la strada alle proposte populiste delle opposizioni. Non è bello ma è legittimo. Sarebbe stato doveroso dirlo apertamente. Naturalmente Renzi e il PD ci hanno messo del loro, basti pensare ai legami sottotraccia con il M5s che Renzi sta cercando in queste ore di ostacolare. Andando a sbattere contro le cerchie oligarchiche cui sembra far sponda la Presidenza della Repubblica e contro il feeling verso il M5s fatto - per pezzi del PD - di “compagni che sbagliano”, feeling di cui troviamo molti indizi nei flussi elettorali in uscita dal PD verso il M5s. O al conservatorismo dei gruppi dirigenti locali e regionali del PD colpevolmente tollerati e incoraggiati da Renzi. O agli errori ripetuti di timing, di tattica e di strategia, alle occasioni mancate, alle alleanze sbagliate. Tra chi si sottrae al gioco dell’ammiccamento pentastellato, Giovanni Guzzetta http://bit.ly/2Fomswq tenta un’ingegnosa ricostruzione bipolarista del voto di domenica scorsa. Da una parte abbiamo i populisti e lo statalismo. Dall’altra i liberali, sì un po' ammaccati dalla vittoria di Salvini ma insomma sempre liberali. Lo schema di questo strano bipolarismo, riempito della nuova frattura tra chiusura e apertura, è fragile ma regge. Il PD è andato fuori gioco ma lo schema è delineato. Anzi è proprio il PD a presidiare quell’area del campo di gioco alla quale, partendo dalle ali dei due poli, populisti e liberali guardano per guadagnare una possibile maggioranza, se non numerica quanto meno politica. Dal che il PD dovrà rapidamente decidersi, pena fare la fine della DC dei primi anni novanta, incapace di scegliere tra destra e sinistra. Oggi si deve scegliere tra populismo e liberalismo. Ora, la comune matrice ostinatamente bipolarista, maggioritaria e governante mi fa apprezzare il tentativo di salvare “capra e cavoli” – e cioè il bipolarismo e una razionalizzazione del risultato elettorale. Come pure trovo utile analizzare le cose in termini di nuova frattura tra chiusura e apertura. Il punto è però che il risultato del 4 marzo è un altro. Anche le prime analisi del comportamento elettorale ci dicono infatti che tra scambio di flussi, migrazioni e recuperi dall’astensionismo intermittente, l’area di sovrapposizione tra M5s e Lega, come tra Lega e Fratelli d’Italia, è fortissima. Nel 2013 un elettore su quattro della Lega la abbandonò per il M5s. Oggi abbiamo assistito al processo inverso, anche in aree urbane del centro nord. Questa mobilità elettorale corrisponde alle numerose convergenze programmatiche e al comune sentimento allo stesso tempo di chiusura e di protesta. Una mobilità senza movimento, si sarebbe detto in altri anni. Lo sfondamento della Lega ben oltre gli antichi confini padani mostra come neppure la netta separazione tra ceti produttivi e ceti assistiti possa integralmente rappresentare i rapporti tra i due partiti. Tra i piccoli imprenditori il M5s è il primo partito, seguito dalla Lega. Nelle aree dei distretti industriali del centro nord Lega e M5s si dividono i successi. La proposta distinta ma convergente di Lega e M5s ha vinto le elezioni, questo è il punto. La presenza di elementi riformisti liberali nel ceto politico e nell’elettorato di Forza Italia è minoritaria rispetto a questo schema, come minoritaria è la componente riformista liberale del PD. In regime proporzionalistico non c’è mandato elettorale, ci sono maggioranze e governi post elettorali da mettere in piedi, tenendo conto delle carte distribuite dagli elettori e delle possibili convergenze. Quelle tra Lega e M5s, con o senza FdI, sono nelle cose. Si tratta di un’opzione pericolosa, scrive Leonardo Becchetti su Avvenire, le urne elettorali non sono slot machine. Il rischio del governo dei populisti è infatti il ritorno precipitoso al voto. Si tratta però di un allarme ingiustificato. Un governo dei populisti ha un’omogeneità programmatica maggiore di qualsiasi altra strampalata coalizione post elettorale. Che sia una buona cosa per il paese è tutt’altra questione. Ma la democrazia è questo: non vince chi ha ragione, ha ragione chi vince. E in ogni caso non solo piccole democrazie ma anche grandi democrazie hanno sperimentato periodi di incertezza con ritorni ravvicinati al voto, dalla Gran Bretagna degli anni settanta alla più recente esperienza spagnola. Il bipolarismo, strano quanto si vuole, che si va delineando non è infatti quello che descrive Giovanni Guzzetta, o meglio ha quella meccanica (apertura vs chiusura) ma non ha quel formato (populisti vs liberali). Il fronte sovranista e populista ha infatti trovato il suo sbocco: Lega e M5s lo presidiano anche se sono stati separati dalla dinamica proporzionalistica del voto. Il fronte liberale e riformista non ha ancora il suo sbocco, nessuno lo presidia. è questa la scommessa: inventare rapidamente il soggetto in grado di farlo.

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