4 marzo 2018: un risultato che viene da lontano, di Giorgio Armillei

Il risultato del 4 marzo 2018 come quello del 4 dicembre 2016 vengono da lontano: oltre Renzi, oltre la crisi economica, oltre l’immigrazione. Viene da decenni nei quali, con motivazioni e percorsi tra loro anche molto distanti, si è alimentato il virus del settarismo, qualche volta senza neppure capire che lo si faceva mettendo a rischio il funzionamento ordinato del sistema politico, qualche volta scientemente per lucrarne i vantaggi elettorali. Un po’ come per la Brexit: decenni di sistematico euroscetticismo hanno preparato il terreno a Farage compagni. Cameron c’entra ma fino a un certo punto. In questo passaggio del testimone tra settaristi troviamo le cose più diverse. Si potrebbe andare molto lontano e trovare tracce di tutto questo nelle culture politiche del periodo costituente, un’operazione intellettualmente sfidante ma forse oggi poco efficace. Efficace eccome fu invece la stagione avviata dal Berlinguer dei primi anni ottanta, molto diverso dal Berlinguer dei saggi su Rinascita che avevano costruito la cultura del compromesso storico. Potrebbe sembrare provocatorio ma è in quella fase che il PCI comincia a iniettare le prime dosi. Parte lo schema manicheo: la frattura è tra onesti e disonesti, tra puri e corrotti. Si prosegue con l’alleanza opportunista che cavalca le inchieste sulla corruzione, la tragica stagione di “mani pulite”. Lì in un corpo già contagiato si incunea il populismo giudiziario, il diritto delle procure a stabilire le strategie della politica criminale al posto del Governo e del Parlamento, il pericoloso spostamento nell’equilibrio tra i poteri, la legittimazione del paradigma giudiziario come paradigma del conflitto politico. Segue la campagna giornalistica e più in generale mediatica sui privilegi della casta. Sistematica, martellante, unidirezionale. Si distingue in peggio, forse non tanto a sorpresa, quello che una volta si chiamava il giornalismo della borghesia produttiva. Ancora una volta una dose di moralismo, di separazione tra puri e impuri, di riduzione della specificità funzionale - e dunque anche in un certo modo professionale - della classe politica a odioso privilegio personale. Facendo finta di non sapere che la patologia non è l’esistenza dei politici di professione, essenziali se non si vuole affogare tra politici dilettanti, quanto di chi vive di politica e usa l’apparato politico amministrativo per garantirsi una rendita personale. E' il turno poi il populismo vero e proprio, quello da manuale di sociologica politica: un’altra dose di semplificazione manichea entra in circolazione. Di questa dose fa parte la rivitalizzazione del filone giustizialista, anch’esso dalle lontane radici a sinistra e a destra, dal “resistere resistere resistere” fino al cappio in parlamento. L’album dei ricordi della sinistra radicale, diceva Rossana Rossanda a proposito dei rapporti tra terrorismo delle Brigate rosse e storia del PCI. Si potrebbe dire qualcosa del genere oggi. Un filone che si insinua un po’ ovunque e diventa egemonico. Ne è espressione il “grande gendarme” dell’anticorruzione che diventa sostanza istituzionale, apparato di poteri, luogo di controllo e di codecisione. Il PD ha flirtato con questa quarta ondata? Certo che ha flirtato, così come ha fatto Forza Italia. A differenza, tanto per fare un esempio, della SPD o della CDU che hanno eretto muri a sinistra e a destra per non concedere nulla ai populismi. Se non altro per un principio tattico basilare: tra l’originale e la copia mal fatta l’elettore sceglie l’originale. Dal che l’emorragia da Forza Italia verso la Lega e dal PD verso il Movimento 5 stelle. Come non bastasse, in un corpo politico debilitato e che ha ripetutamente rifiutato le cure giuste – dalla grande riforma di Craxi alla bicamerale D’Alema, dalla riforma costituzionale del centrodestra alla riforma Renzi Boschi – piomba anche il virus sovranista. Un virus che ha preso a circolare liberamente in tutta l’Unione europea e che al momento tuttavia non è riuscito a infettare in modo irreparabile nessuno tra gli stati membri che contano, quelli dotati di istituzioni forti capaci di resistere agli urti delle fasi critiche, siano esse i partiti politici come in Germania o le regole di governo come in Francia. Ci fossimo concessi il lusso di costruire anche in Italia istituzioni di governo forti saremmo anche noi ora in quelle stesse favorevoli condizioni. Invece abbiamo scelto democraticamente di tenerci strette istituzioni politiche deboli, incapaci di decidere in fretta dopo aver misurato con chiarezza il grado di consenso degli elettori. E certo nessuno tra quelli che ora dentro i confini dell’Unione si preoccupa del risultato del 4 marzo ha fatto nulla per scongiurare questo scenario. A che punto siamo dunque? Siamo di fronte a un nuovo tornante della storia politica del paese. Il regime costituzionale repubblicano, agganciato ormai stabilmente alle istituzioni di governo dell’Unione e al suo diritto, ci consente di evitare lo slittamento verso assetti nei quali il virus illiberale da patologia sanabile diventa deviazione cronica. E la vitalità del sistema economico, soprattutto della sua parte più molecolare e più reattiva, verrà a capo sgangherata inefficienza del sistema politico. Occorre però da subito una chiara determinazione a non voler procedere con appeasement e inseguimenti. In questo senso la scelta post elettorale di Renzi introduce chiarezza e porta allo scoperto le tentazioni di pezzi del PD insieme all’ambigua posizione della Presidenza della Repubblica, accuratamente nascoste negli ultimi anni e ostinatamente ignorate nonostante in non pochi ci si sia spesi per azionare l’allarme. E’ venuto il momento del big bang: oltre il PD, non per tornare indietro ma per rendere soggetto politico il polo liberale e riformista dell’elettorato italiano, molto più largo di quanto non dicano le sconfitte del PD e di Forza Italia nel voto di domenica. Non si tratta di coltivare l’isolamento personalistico o di rifiutare il dialogo. Cercare il dialogo e cercare di capire il comportamento degli elettori, cambiando quindi se necessario gli strumenti e gli occhiali con i quali tentiamo di vedere le cose, è vitale per elaborare proposte politiche convincenti. Il dialogo serve a contenere i pregiudizi, forse anche a rimuoverli, certamente ad eliminare gli estremismi. Ma il dialogo non serve a eliminare le differenze. Le differenze sono tanto essenziali quanto il dialogo per far funzionare bene la democrazia liberale, qualunque siano le trasformazioni che oggi la investono. Il voto di domenica ha ben messo in evidenza, pur nella confusione degli schieramenti, una differenza che nessuna soluzione di governo post elettorale dovrebbe camuffare: c’è una maggioranza di elettori che ha dato il proprio voto a proposte politiche sovraniste, radicali, in qualche caso settarie. Queste proposte hanno il diritto e il dovere di governare. E se non ce la fanno vuol dire che gli elettori, nel loro insieme, hanno distribuito male le carte. In regime di proporzionalismo le cose funzionano così. Che poi questa maggioranza sovranista sia in grado di restituire crescita, maggiori opportunità e maggiori libertà al paese, facendolo viaggiare dalla parte giusta dentro le istituzioni europee e nel contesto internazionale, è tutt’altra storia.

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