Vecchia sinistra e nuova sconfitta

Obama perderà le elezioni del prossimo martedì? I sondaggi sono piuttosto stabili: il controllo della Camera dei rappresentanti tornerà ai repubblicani, più incerto il destino del Senato. Ma è Obama che perde le elezioni? E se sì, perché ci si avvicina a questo scenario? Innanzi tutto non commettiamo un errore di prospettiva. Non usiamo occhiali europei per guardare il panorama americano. Il sistema della democrazia americana ha le sue regole e i suoi assetti. E’ una democrazia composita: gli organi di governo sono stati congegnati, allo scopo di difendere il bene più prezioso, la libertà, per essere separati e obbligati – allo stesso tempo - a condividere l’esercizio dei poteri. Dal che una prima conseguenza: che il Congresso, o parte di esso, non sia allineato con il Presidente non è uno stato patologico del sistema. In secondo luogo non commettiamo un errore di prospettiva elettorale. Le elezioni del 2008 hanno sì prodotto la vittoria di Obama e il controllo del partito democratico sul Congresso. Ma attenzione: non sono state elezioni di riallineamento. Non sono state cioè elezioni esito di un processo di lunga durata nel quale si produce un equilibrio stabile tra dinamiche sociali e comportamento elettorale a favore di un partito politico. Lo dice molto bene l’apposito capitolo del libro curato l’anno scorso da Salvatore Vassallo. Elezioni in grado di avviare un processo di riallineamento, da ottenere con un grande sforzo di coesione e coerenza da parte del partito democratico, sì. Elezioni di riallineamento, no. Sfasamento sistemico tra presidenza e congresso, per un verso, e fragilità di lunga durata della vittoria democratica nel 2008 dall’altro, della vittoria democratica non di quella diversa e distinta di Obama, ci costringono a fare considerazioni più complesse sul prossimo voto. Obama ha vinto e governato, nel senso "americano" del termine, sul solco di un’agenda fatta di liberalismo non ideologico. E ha ottenuto non pochi risultati. Lo riconosce anche The Economist, non certo favorevole per principio ai democrats. Ha attivato gli strumenti macroeconomici disponibili per affrontare la crisi. Ha resistito – con ottimi risultati – alle richieste protezionistiche. Ha portato a casa una riforma sanitaria robusta e equilibrata, una vera svolta nella storia americana, innovativa e priva dei vizi del dirigismo. Ha impostato la riforma della regolamentazione finanziaria, compatibilmente con i vincoli della struttura intrinsecamente policentrica del sistema americano. Ha gestito con equilibrio e fermezza Irak e Afghanistan. In tutte queste circostanze ha dovuto subire la pressione della destra repubblicana, perché troppo statalista, e della sinistra democratica, perché troppo pro establishment. Ma è evidente che questa seconda ha finito con il riportare a galla l’egemonia liberal sul partito democratico, l’egemonia erede della stagione keynesiana e inesorabilmente ridimensionata nel decennio del clintonismo. Un’egemonia che, sommata al pericoloso contatto con l’anima più conservatrice del sindacato USA, ha finito con il mettere in fuga l’elettorato indipendente. E’ questo dunque il punto. La strategia vincente di Obama ha avuto un alleato incerto nel composito gruppo dirigente del partito democratico, una realtà fluida ma non per questo non influente. Anzi, se un errore Obama ha commesso è stato proprio quello di delegare eccessivamente alla leadership del partito la gestione del processo di definizione legislativa delle politiche. Ma, ancora una volta, le istituzioni politiche americane hanno il loro peso specifico e non si può pensare di analizzarle come faremmo pensando ad una democrazia parlamentare europea. Obama si deve preparare a gestire la seconda parte del suo mandato in un quadro diverso. Non necessariamente privo di opportunità e, in una qualche misura, fisiologico. Ma, al solito, la vecchia sinistra del secolo socialdemocratico preferisce riscaldare il cuore dei militanti, radicalizzare le posizioni e perdere le elezioni. In questo senso USA e Europa sono molto più vicini di quanto si pensi.

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