Unioni civili. Passaggio storico. Da l'Unità di oggi

di Stefano Ceccanti Il passaggio del voto sulle unioni civili si presenta come storico sia dal punto di vista tecnico sia su quello politico. Sotto il primo profilo almeno dal 2010, con una puntuale sentenza della Corte costituzionale, il Parlamento sapeva di essere inadempiente rispetto a una legislazione organica sui diritti e i doveri delle coppie di persone omosessuali che vogliano assumere un impegno serio in un’unione civile registrata. Questa inadempienza si sommava a quella riconosciuta dalla Corte sin dagli anni ’80 nei confronti delle convivenze stabili di coppie di persone omosessuali ed eterosessuali in cui, al di là della volontà dei singoli di non assumere impegni più forti, non possono comunque mancare garanzie minime a fini solidaristici soprattutto a favore del partner più debole. Si tratta dei due livelli di intervento, dei due strati distinti della legge attuale che coprono rispettivamente i commi da 1 a 35 del nuovo articolo unico (unioni civili) nonché dal 66 al 69 sugli oneri e, quindi, i commi dal 36 al 65 (conviventi di fatto). Analoghe sollecitazioni erano del resto venute dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che vincola il nostro ordinamento anche sulla base dell’articolo 117 primo comma della costituzione, come modificato dalla riforma del Titolo quinto del 2001 e confermato dall’attuale revisione. Sotto il secondo profilo, sia pure dopo alcuni passaggi problematici, si è superata la difficoltà del secondo sistema italiano dei partiti, soprattutto nel campo del centrosinistra, a limitarsi alla cosiddetta libertà di coscienza. Quest’ultima non va certo compressa ma non costituisce una linea politica, anzi, per potersi esprimere ha esattamente bisogno di dichiararsi rispetto a precisi impegni da prendere in termini più generali di fronte agli elettori e più specifici nel lavoro parlamentare, come accade in tutti i grandi partiti a vocazione maggioritaria nei sistemi parlamentari. Ovviamente per superare questa tradizionale difficoltà, prima nel Pd e poi nella coalizione, occorreva passare attraverso un travaglio niente affatto facile. Da una parte vi era la richiesta di non fare in un colpo solo una serie cumulata di innovazioni alcune delle quali, in materia di adozione, non del tutto recepite dall’opinione pubblica; dall’altra vi era l’esigenza di non rimanere indietro rispetto alle norme già vigenti nelle altre democrazie occidentali e all’espansione dei diritti già realizzata per via giurisprudenziale. Il punto di equilibrio politico e tecnico si è trovato nella felice norma di chiusura del comma 20 dove, pur escludendo che dal riconoscimento dalle nuove unioni possa conseguire un’equiparazione al matrimonio, tuttavia resti “fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”, dove il termine consentito stabilizza la giurisprudenza consolidata. Dal punto di vista politico, di per sé, il fatto che la maggioranza di governo esprima una linea chiara non dovrebbe poter precludere ulteriori consensi. Essi si sarebbero conseguiti sul merito se non si fosse ricorsi alla fiducia. Tuttavia il comportamento politico parlamentare non affidabile di alcune forze, unita all’intreccio tra le eccessive possibilità di voto segreto e il bicameralismo ancora paritario, rendevano impossibile rinunciare in questo caso a tale strumento. Per questo, pur con questo limite, il passaggio resta storico.

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