Una riflessione di Stefano Brogi verso le elezioni

  Condannati alla palude?   «Seconda Repubblica» (d’ora in poi: R2) è un’espressione impropria, quando riferita al caso italiano: a differenza della Francia (nella cui storia si contano ben cinque repubbliche) l’Italia ha conosciuto una sola costituzione repubblicana. Nel nostro caso R2 rimanda alla profonda trasformazione degli assetti politici avvenuta a seguito della crisi del 1992-94. A innescarla furono la fine del comunismo sovietico e (di conseguenza) italiano, la crisi finanziaria dello stato, la rivolta fiscale capeggiata dalla Lega Nord, la deflagrazione della DC (e del PSI) provocata da Tangentopoli. I referendum Segni incanalarono una crisi altrimenti senza sbocchi nella direzione di una democrazia di tipo maggioritario, che però si concretizzò in maniera molto imperfetta dal punto di vista dell’architettura costituzionale e della stessa legge elettorale. A dare effettivamente corpo alla R2 fu così la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, che provocò la definitiva scomparsa di un centro autoreferenziale e configurò per i venti anni successivi la competizione tra (centro)destra e (centro)sinistra.   Nel bene e nel male Berlusconi è stato l’architrave della R2. Nel bene (per chi ritiene che la configurazione bipolare e/o bipartitica costituisca il necessario presupposto di una democrazia dell’alternanza, in cui i cittadini detengano effettivamente il potere di indirizzo politico) perché ha polarizzato il confronto tra due schieramenti alternativi e ha impedito il successo dei rigurgiti centristi che si sono più volte e in varie forme ripresentati; nel male (per chi ritiene che la democrazia dell’alternanza debba presupporre la legittimazione reciproca dei contendenti e sottoporre alla scelta dei votanti chiare alternative di governo e non solo fragili alleanze elettorali) perché ha provocato una competizione “selvaggia” fondata sulla demonizzazione dell’avversario, sullo scontro tra i poteri dello stato, su cartelli elettorali eterogenei privi di una effettiva coesione programmatica. Naturalmente alla definizione di tale scenario hanno contribuito in maniera decisiva anche gli antagonisti di Berlusconi, costretti (quasi sempre di buon grado) ad agire di rimessa: Berlusconi ha sempre avuto, nei fatti, la capacità di scegliere il terreno del confronto e di imporre le stesse regole della competizione (il che naturalmente la dice lunga sulla fragilità intrinseca dello schieramento alternativo, che non è mai riuscito a riconoscersi stabilmente in una leadership e in una proposta politica chiara, divorando progressivamente tutti i protagonisti che si sono affacciati sulla scena, da Prodi a D’Alema, da Rutelli a Veltroni). Berlusconi ha dunque “congelato” a lungo la competizione in senso bipolare, ma ne ha pesantemente condizionato la qualità, impedendo una reale stabilizzazione del sistema politico e lasciando aperta la possibilità di una destrutturazione radicale con l’esaurirsi della sua personale esperienza politica. Diciamo che Berlusconi ha sempre optato per il bipolarismo nel breve periodo, ma ne ha sempre consapevolmente impedito (dai tempi della bicamerale) il definitivo radicamento. è accaduto così che negli ultimi anni in molti, nel Palazzo e nel Paese (ma anche in Europa e in America), abbiano cominciato a progettare nuovi assetti per il dopo Berlusconi, sollecitati anche dalla sempre più evidente incapacità di PDL-Lega di assumersi reali responsabilità nel governo del paese a fronte dell’incalzare della crisi economica. All’ombra della retorica liberista berlusconiana (e leghista) è infatti cresciuto nel tempo il colbertismo tremontiano, vero erede dell’andreottiano “tirare a campare”, con la sua teorizzazione dell’impossibilità delle riforme durante le crisi e della loro inutilità nei (peraltro sempre inattuali) momenti di stabilità economica. Specularmente ciò ha alimentato il riemergere della cultura dirigista e anti-liberale così connaturata a tanta parte del centrosinistra e dello stesso PD, peraltro ravvivata dalle prove non certo brillanti fornite dai rarissimi esempi di liberalizzazioni concretamente realizzate durante la legislatura 1996-2001 e dalla sgangheratissima riforma pseudo-federalista del titolo V della Costituzione, oltre che dalla pessima pratica di governo regionale fornita un po’ ovunque da tutti.    In questo quadro è precipitata la crisi dell’ultimo governo Berlusconi, frutto non certo di congiure ma dell’ostinato rifiuto dello stesso di assumersi la responsabilità di scelte ormai improcrastinabili, prima fra tutte quella della riforma delle pensioni imposta dalle autorità europee. Di fronte alla prospettiva di una rottura con la Lega su questo tema e di una più che prevedibile sconfitta elettorale Berlusconi ha scelto di assecondare il disegno di Napolitano: un governo di tregua che si assumesse gli oneri che le due parti non erano capaci di sostenere (lo stesso Bersani ha accettato questa opzione non solo perché convinto di non poter imporre la scelta di elezioni immediate, ma perché consapevole di non avere alternative praticabili). Abbiamo avuto così il governo Monti, che è servito sostanzialmente a tre cose: 1) portare finalmente a termine il lunghissimo e contorto processo di riforma pensionistica avviato a metà degli anni ’90; 2) restituire un’immagine accettabile al nostro paese nel contesto europeo e mondiale e, in forza di ciò, consentire le pur timide correzioni della gestione della crisi dell’euro avvenute nell’ultimo anno (ad opera principalmente della BCE di Mario Draghi); 3) dare tempo alle forze politiche per riconfigurare la loro proposta in una direzione compatibile con i vincoli internazionali che determineranno ancora a lungo le scelte dei governi futuri (a cominciare dal “fiscal compact”). Quest’ultima opportunità è stata sostanzialmente mancata, al punto che a posteriori è legittimo dubitare che i primi due risultati siano sufficienti a giustificare il secondo semestre di governo, bruciato in contorsioni sostanzialmente inconcludenti sia dal punto di vista legislativo che dal punto di vista politico. A rendere vani gli ultimi mesi hanno contribuito lo svuotamento della riforma del lavoro da parte della CGIL e del PD e l’insabbiamento (largamente condiviso in sede parlamentare) delle iniziative sulla riforma della giustizia e delle pensioni. Sul piano politico il fattore determinante è stato però, ancora una volta, Berlusconi: il suo permanere in campo, seppure politicamente moribondo, ha impedito di fatto qualunque iniziativa di riorganizzazione del centrodestra, spingendo prima Casini e poi Monti in una collocazione “terzista” incapace di scommettere sulla riorganizzazione dell’area moderata-conservatrice, come era invece negli auspici dei poteri ecclesiastici (di tutte le principali “correnti”, quelle ruiniane e quelle anti-ruiniane), dei poteri finanziari (italiani e internazionali) e dei poteri politici europei (ben oltre i confini del PPE). A conti fatti il centrodestra, che è esistito per vent’anni solo grazie a Berlusconi, non è ancora capace di farne a meno, nonostante che l’uomo di Arcore sia ormai, visibilmente, l’ombra di se stesso. La sua degenerazione fisica e il suo volto tumefatto sono lì a rendere evidente (al di là di qualunque valutazione morale) che la sua ultima battaglia non ha ormai alcun senso politico, ma solo personale: tutto il resto del PDL - l’unico partito della nostra storia elettorale capace di rivaleggiare con i migliori risultati della Democrazia Cristiana - appare privo di ogni reale consistenza politica, assorbito dal tentativo di salvataggio personale dei singoli e niente più. La battaglia di Berlusconi è disperata, perché già persa in partenza, ed è comunque una battaglia per la sopravvivenza, non per la vittoria: l’obiettivo è di contendere al centro montiano il ruolo di interlocutore indispensabile del PD per il prossimo governo (o almeno per l’elezione del Presidente della Repubblica). è chiaro infatti che le elezioni del 24-25 febbraio prossimi possono avere un solo vincitore (il PD), che però con tutta probabilità non sarà in grado (numericamente e/o politicamente) di governare con lo schieramento con cui si è presentato alle elezioni. Ciò lo costringerà a un accordo col centro di Casini e di Monti (più del primo che del secondo, per quel che si può prevedere), a meno che anche questo accordo manchi dei numeri necessari, nel qual caso Berlusconi potrebbe rientrare tra i contraenti di un nuovo governo di larghe intese. Si tratta però di un’ipotesi talmente improbabile da richiedere un vero e proprio miracolo berlusconiano. Il Condottiero di Arcore ha dimostrato in passato di saper trasformare un azzardo in una scommessa e una scommessa in una vittoria, ma stavolta è davvero improbabile che ci riesca: è ormai lontana l’epoca in cui sapeva tramutare l’acqua in vino e gli inascoltati appelli di Giuliano Ferrara che lo invitavano a cercare un accordo con Monti sono lì a confermarlo. L’unico che ha saputo utilizzare gli ultimi mesi per (o è stato costretto dai fatti a) ridefinire in parte la propria offerta politica è stato il PD di Bersani. In realtà l’unica scelta azzeccata di Bersani, a conti fatti, è stata quella delle primarie. Una constatazione un po’ ironica, se si tiene conto della freddezza con cui gran parte dei suoi sostenitori ha sempre guardato all’esaltazione della “politica dei gazebo”, ma questo non conta. Nello scenario attuale vale l’antico detto: nel paese dei ciechi chi ha un occhio solo è un signore. Le primarie hanno restituito credibilità a un PD che sembrava sull’orlo del disfacimento, lo hanno riportato al centro della contesa e hanno consentito a Bersani di dare finalmente un po’ di smalto alla sua leadership, marginalizzando gli ormai ingombranti maggiorenti del partito. Tutto questo Bersani lo deve in gran parte a Renzi, che è stato per lui un avversario pressoché perfetto: ha reso “vere” primarie altrimenti stanche e rituali e ha allargato non di poco l’area potenziale degli elettori; gli ha consentito di presentarsi come “uomo di governo” disponibile a traghettare una nuova generazione di dirigenti verso ruoli di primaria responsabilità;  gli ha consegnato legate mani e piedi le vecchie cariatidi che l’hanno tenuto per troppo tempo in pugno; ha evitato di radicalizzare lo scontro sulle regole delle primarie, pur sapendo che lo avrebbero assai penalizzato, e soprattutto gli ha rinnovato una quasi incondizionata apertura di credito dopo le primarie stesse, ben al di là del dovere di lealtà a cui era tenuto. Se Bersani diventerà Presidente del Consiglio dovrebbe recarsi tutti i mesi in pellegrinaggio a Palazzo Vecchio, se la gratitudine in politica contasse qualcosa. Il problema è che, nonostante san Matteo, difficilmente Bersani uscirà vincitore assoluto dalla contesa elettorale. Una vittoria netta anche al Senato della maggioranza PD-SEL appare poco probabile e (non sembri un vaneggiamento) perfino poco auspicabile, dal punto di vista dell’Uomo-che-smacchiava-i-Giaguari. Un governo inchiodato al sinistrismo vendoliano avrebbe vita grama e potrebbe finire schiacciato su una linea incompatibile con la tenuta del Paese. Il risultato migliore per Bersani dovrebbe somigliare a quello di Prodi del ’96, con la differenza che in questo caso esiste un’area centrista disponibile ad offrire una stampella al PD: un risultato di quel tipo consentirebbe infatti 1) di giustificare l’apertura al centro come una necessità e 2) di trattare con Casini e Monti senza dover subire diktat sul nome del premier. Se invece PD e SEL non avessero una maggioranza, seppur risicata, al Senato, l’accordo col Centro sarebbe ancora inevitabile, ma assai più oneroso: un risultato simile aprirebbe immediatamente, sia detto per inciso, una difficilissima partita all’interno dell’area Monti-Casini-Fini-Montezemolo, che dovrebbe assumersi l’onere di scelte strategicamente assai impegnative che potrebbero far rapidamente esplodere le contraddizioni politiche tra chi in prospettiva guarda a destra, chi guarda a sinistra e chi guarda semplicemente al Quirinale. La domanda che così ci viene pericolosamente incontro è la seguente: che cosa può aspettarsi un riformista dalle imminenti elezioni? O più prosaicamente: chi dovrebbe votare chi è razionalmente e emotivamente affezionato alla democrazia dell’alternanza ma si rende conto che il nostro paese è ancora troppo vicino al baratro finanziario per non porsi in tutta serietà il problema del governo non solo nel medio-lungo periodo ma anche nel breve e forse nel brevissimo tempo? Le due esigenze sono infatti collidenti l’una con l’altra: solo una vittoria netta di Bersani-Vendola sembra garantire la stabilità del quadro bipolare, spingendo Monti e soci a rendersi finalmente disponibili per la ristrutturazione del centro-destra del dopo Berlusconi; ma questa vittoria offre ben poche garanzie di compatibilità col quadro europeo e soprattutto con le ineludibili esigenze di tenuta dei conti e di ripartenza economica. D’altra parte un eventuale governo Bersani-Monti finirà inevitabilmente per somigliare al governo Monti-Bersani-Alfano dell’ultimo anno: capace di partorire alcuni interventi improcrastinabili, ancorché impopolari, ma privo del respiro indispensabile per affrontare i nodi veri dell’inefficienza e dell’iniquità del nostro sistema-Paese. Il combinato disposto di una pessima legge elettorale e dell’involuzione del sistema dei partiti mette insomma gli elettori di fronte a una scelta razionalmente impossibile. Resta naturalmente aperta la strada di una scelta del cuore, per chi trovi ancora motivi per farla: non occorre però essere veggenti per immaginare che saranno molti i cuori infranti, in tempi assai brevi. Qualche consolazione potrebbe trovarla chi (come me, del resto) si troverà ad esprimere un voto che risulterà in ogni caso ininfluente. Solo gli elettori del Senato di alcune regioni (Lombardia, Sicilia, Campania e Veneto, nell’ordine) avranno infatti l’onore e l’onere di determinare il quadro politico con cui si avvierà la prossima legislatura. I cuori di tutti noi abitanti nel resto d’Italia possono dunque volteggiare con leggerezza e scegliere senza troppe angosce il fiore su cui posarsi (o magari i fiori: c’è sempre la possibilità di un voto difforme tra le due Camere). Per lombardo-veneti e siculo-campani invece, per parlare francese, sono cavoli amari, in tutti i sensi. A pensarci bene, del resto, lo stesso Monti sarà di fronte a un clamoroso paradosso, quando entrerà nella cabina elettorale. Se davvero vuole avere un ruolo politico, infatti, il milanese Monti dovrà votare per Berlusconi: solo la vittoria di PDL-Lega in Lombardia e in una delle altre regioni in bilico può infatti impedire a PD-SEL di avere la maggioranza al Senato e dunque rendere indispensabile il “soccorso bianco”. Chissà se il Professore voterà con la testa o col cuore… Di fronte a un simmetrico paradosso si troveranno i pidiellini (e assimilabili) sinceramente bipolaristi: l’unico voto ragionevole risultando in questo caso quello per Bersani, visto che sia il voto per Monti che quello per Berlusconi mirano esclusivamente all’interdizione e aprirebbero la strada alla palude (se poi c’è qualcuno che abbocca ancora alle ipotesi di grande accordo costituente dell’ex-Caimano, vada anche lui dove lo porta il cuore…). Ultimo paradosso che qui propongo (ma altri se ne potrebbero citare) è quello di Vendola, che avrebbe tutto l’interesse di evitare l’assunzione di responsabilità di governo, nei prossimi anni, per cui dovrebbe tifare di nascosto per un risultato che gli consentisse di non bere l’amaro calice. In definitiva difficilmente il voto di febbraio sarà davvero risolutore e capace di indirizzare il cammino della politica italiana per i prossimi cinque anni, come sarebbe giusto e anche necessario. Assisteremo dopo il voto, con grande probabilità, al festival dei contrapposti o convergenti tatticismi (con la curiosità di scoprire se il professor Monti sarà capace di navigare in quel mare e, eventualmente, con quali obiettivi), nella speranza che il contesto economico e internazionale ci consenta di non tornare rapidamente nel cuore della tempesta. Uno scenario con troppe variabili ad oggi imprevedibili, ma in cui non risulta affatto improbabile che nel giro di qualche mese o di qualche anno si debba tornare nuovamente al voto. Laddove questa prospettiva si riaffacciasse, naturalmente, riascolteremo le consuete giaculatorie sulla necessità di procedere preliminarmente almeno ad alcune correzioni della legge elettorale, ma difficilmente (ancora una volta) i contrapposti interessi partoriranno qualcosa di concreto. Sempre più necessario risulterà alle menti (e spero anche ai cuori) un forte movimento d’opinione che punti all’importazione pura e semplice del semipresidenzialismo francese con doppio turno uninominale e adeguato sbarramento (o più semplicemente ballottaggio). In attesa che un leader politico dotato di sufficiente lungimiranza e di sufficiente appeal popolare possa intestarsi questa battaglia (se possibile nell’ambito di un più generale progetto di riforma autonomista che preveda la drastica riduzione del numero dei Comuni, l’abolizione delle Province, la nascita effettiva delle Città Metropolitane e la riorganizzazione radicale delle Regioni, secondo principi di sussidiarietà, efficienza e responsabilizzazione che si traducano in un processo riformatore scrupoloso e di lunga lena). Auspicando che dal buco nero della fine del berlusconismo prenda forma, anche sull’altro versante, qualcosa in cui sia lecito intravedere una pur incerta speranza, l’unico leader che merita di esser tenuto sotto osservazione, per chi abbia interesse a questa prospettiva, è oggi Matteo Renzi. Proprio per questo mi pare opportuno riesaminare criticamente il suo percorso dell’ultimo anno, per capire se si possa legittimamente confidare in una sua iniziativa e magari sollecitarla, oppure se si tratta soltanto di tempo perso (in questa seconda eventualità suggerisco di dedicarsi nel breve-medio periodo alla letteratura o, come vorrebbe una cara amica, al volontariato sociale e al giardinaggio, che possono sempre riservare soddisfazioni, perché francamente non si scorgono all’orizzonte altre potenzialità politiche significative). Il ragazzo di Rignano sull’Arno ha avuto il merito di saper lanciare una sfida vera a tutta la vecchia classe dirigente post-comunista e post-democristiana, senza accettare tutele o cooptazioni. Da questo punto di vista rappresenta un caso più unico che raro, in tutta la R2, visto né il fondatore dell’Ulivo né quello del PD avevano osato qualcosa di simile. Renzi ha dimostrato di avere le qualità per sostenere una competizione dura e perfino “cattiva” come è stata quella delle primarie, di avere la stoffa per parlare a tutto il Paese e non solo alla platea dei tifosi del centrosinistra. Ha dimostrato di avere anche la lucidità per capire che dopo le primarie doveva cambiare registro, dimostrando fedeltà alla “ditta” e conquistandosi infine il diritto di rappresentarla tutta, potenzialmente, in attesa che le circostanze gli offrano una nuova e più praticabile occasione. Queste qualità fanno sì che Renzi sia indubbiamente, nello scenario attuale, “er mejo figo der bigoncio”: chi lo mettesse in dubbio dovrebbe cortesemente indicare un altro nome su cui fare maggiore affidamento. La politica non può aspettare in eterno Godot, deve scommettere su quello che passa il convento. Se poi il convento si deciderà a partorire un miglior Lancillotto lo prenderemo seriamente in considerazione: fino ad allora, astenersi perditempo. Ciò non significa affatto che si debba far finta di non vedere i limiti di Renzi. Durante le primarie ha difettato, a mio avviso, su due fronti decisivi: non ha mostrato di possedere un profilo di governo adeguato e affidabile, perdendo decisamente il confronto con l’“usato sicuro” bersaniano, per questo verso; è apparso in larga misura un “uomo solo al comando” (anzi, in qualche circostanza, “ragazzo solo al comando”), cioè non è stato capace di rappresentare una leadership collettiva fatta di storie, competenze e risorse umane adeguate alla sfida di portare l’Italia fuori dalla crisi. Il tema della rottamazione era giusto e azzeccato, ma costituiva solo la necessaria “pars destruens” di un discorso che abbisognava di una “pars construens” più strutturata e percepibile, risultando ovviamente insufficienti, alla bisogna, i contributi di uno Zingales e quello (in corsa) di Ichino. Della necessità di costruire intorno a sé una leadership collettiva Renzi si è mostrato largamente inconsapevole anche dopo le primarie: non tanto per non aver battuto i pugni sul tavolo pretendendo un maggior numero di parlamentari, ma per aver privilegiato nella scelta il proprio staff, abbandonando al proprio destino le (non molte) competenze che aveva a disposizione tra gli ex-parlamentari (qui il discorso riguarda in primo luogo Stefano Ceccanti e Salvatore Vassallo, oltre allo stesso Ichino). Staremo a vedere se nella pattuglia dei renziani ci sarà, a conti fatti, più qualità di quella che è possibile scorgere a prima vista: ma il dubbio che quei parlamentari possano alla fine risultare irrilevanti, per gli stessi disegni renziani, resta per ora assai forte, nonostante l’annunciata costituzione di una sorta di “sezione parlamentare” autonoma. Discutibilissima è poi apparsa la scelta di non difendere coloro che più si erano esposti nello scontro interno con la nomenklatura di partito: un leader deve certo disporre di una certa dose di cinismo, ma deve anche dimostrare di esser disposto a combattere per chi combatte per lui, altrimenti la volta successiva rischia di far fatica a trovare chi sia disposto a sacrificarsi. La gestione delle trattative per le liste parlamentari è stata dunque un’occasione perduta per Renzi, anche se non credo che l’errore sia di per sé tale da autorizzare fin d’ora a considerarlo una meteora passeggera. Certo deve evitare di reiterare lo sbaglio e mettersi seriamente a lavorare per proporsi come un leader capace di coagulare intorno a sé pezzi di politica e di società disposti al cambiamento: un lavoro che nessuno può fare da solo e per cui non basta qualche consulente o uno staff, seppur di qualità. Altrettanto urgente, per Renzi, è ridefinire la sua personale agenda politica, che certamente deve vederlo concentrato sul governo di Firenze, ma dovrà continuare a vederlo protagonista della politica nazionale già nelle prossime settimane di campagna elettorale. Ha preso l’impegno di aiutare Bersani e deve farlo, ma caratterizzando la sua diversità rispetto all’attuale PD (solo così, tra l’altro, potrà davvero portare un valore aggiunto alla “ditta” in vista del voto di febbraio). Non basta, né al Pipiritto né al Pallemosce (secondo le impagabili definizioni del “Vernacoliere”), che il sindaco di Firenze si faccia vedere sorridente e plaudente accanto al candidato premier del PD: Renzi deve marcare il suo sostegno calando un paio di carichi importanti sul piano dei programmi e delle strategie. Il primo carico, a mio avviso, è quello che ho già evocato: chieda al PD e a tutto il futuro Parlamento di mettere all’ordine del giorno la riforma semipresidenziale e autonomistica di cui sopra e annunci che intende spendersi nel Paese per sostenerla. Attirerà sul PD l’attenzione di una vasta platea di elettori oggi incerti, tornerà a dimostrare di poter essere il riferimento del futuro sia per chi finirà per votare PD che per molti che finiranno per rivotare Berlusconi e nel contempo metterà in mora il probabile asse Bersani-Monti (Casini) su un tema decisivo, posizionandosi nel modo migliore per prenderli d’infilata di fronte alle prevedibilissime incertezze del cammino post-elettorale. Il secondo carico (ma qui dovrebbero parlare altri più competenti di me) dovrebbe riguardare la grande questione fiscale che è da tanti anni all’ordine del giorno, che è centrale per tutti i cittadini ma su cui difficilmente il governo Bersani-Monti sarà capace di intervenire con decisione: Renzi dovrebbe intestarsi la proposta di una riforma radicale che alleggerisca il peso del fisco sul lavoro e sulla produzione, finanziata sia con la lotta all’evasione che con la riduzione della spesa (a cominciare dall’azzeramento dei finanziamenti alle imprese). A questi due carichi potrebbe accompagnarsene un terzo, tutto politico: sfidare Bersani a non tornare indietro su quel po’ di rottamazione che è stata avviata, diffidandolo dal nominare D’Alema ministro degli esteri del futuro governo. Naturalmente non sono questi gli unici temi su cui Renzi potrebbe caratterizzare il profilo della sua nuova stagione politica, anche se mi sembrano francamente i più decisivi. Sono temi tra l’altro del coerenti con l’aspirazione (di cui si vocifera) a sostituire Del Rio come presidente dell’Anci: un ruolo che Renzi dovrebbe ovviamente interpretare in modo ben diverso da quello tradizionale. In ogni caso il sindaco di Firenze non può permettersi di rimanere in silenzio ancora a lungo. La possibilità di giocare un ruolo di protagonista dopo il 24 e 25 febbraio dipende anche da quello che farà nelle settimane che ci separano da quella data. Sarebbe un azzardo limitarsi a sedere sulla riva del fiume in attesa che passino i cadaveri di Bersani e di Monti. Può darsi che passino, ma può darsi anche che il fiume cambi percorso. Sarebbe un peccato, perché le speranze che il ragazzo ha mostrato di saper intercettare sono molte e molte altre potrebbero aggiungersi. Ma vanno coltivate col coraggio e la determinazione che ha dimostrato di avere (e che non credo abbia perso in pochi giorni), con la lungimiranza di cui sta dando prova (ma che non deve trasformarsi in inerzia), con la generosità e lo spirito di squadra che fin qui gli hanno fatto un po’ difetto. Non ne va solo del suo futuro: ne va, per quel che si può oggi capire, anche della possibilità che l’Italia smetta di affondare sempre più nella palude.

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