Una lettera di don Antonio Cecconi su Chiesa, pace e guerra

Ai miei amici giornalisti e dintorni... Cari amici, vi trasmetto copia di questa mia lettera che esce sul n. 4 della rivista Settimana (edita dai Dehoniani di Bologna). Prima di questa, a seguito dell’uscita su Avvenire di una pubblicità a FINMECCANICA, avevo scritto al direttore di quel giornale e al vescovo che presiede la Soc. Editoriale a nome della CEI, senza avere alcuna risposta. A quel punto ho buttato giù il testo che vi allego. Il mio sogno (chiamatelo pure presunzione... o illusione) sarebbe che fossimo un bel po’ di preti e laici a sollecitare ciascuno i rispettivi Vescovi per un “richiamo” ad Avvenire e soprattutto perché il tema della pace - che è sia la produzione e vendita di armi, sia l’affossamento del servizio civile, sia soprattutto l’educazione alla pace delle giovani generazioni... - venga messo all’ odg nell’assemblea generale della CEI. Si può almeno provarci? Saluti d. Antonio Cecconi Cara Settimana, in questo mese di gennaio, aperto ancora una volta con la giornata mondiale della pace, vorrei lanciare qualche provocazione sul tema, magari aprendo un confronto da queste colonne per riflettere se e come la pace è un punto fermo importante nella coscienza dei credenti, e quanto nelle nostre attenzioni pastorali abbia spazio e significato l’educazione alla pace, anche in riferimento a quella “vita buona del Vangelo” messa a tema dalla CEI. E per ricordarci, poiché mi pare che ce ne sia bisogno, che non si può affrontare il tema della pace senza condannare quello che è il suo contrario, cioè la guerra, la violenza non solo personale ma anche istituzionalizzata, né senza criticare scelte politiche insensibili o inadatte ad attivare percorsi di pacificazione. Ho parlato di provocazione a partire dal fatto di essermi sentito provocato trovando, sul numero di Avvenire del 30 dicembre u.s., una pubblicità a tutta pagina (l’ultima) della FINMECCANICA, azienda italiana - o meglio, gruppo di aziende - la cui attività principale è nel settore difesa e aerospazio, vale a dire produzione e vendita di armi da guerra. La stessa pubblicità è apparsa in quel periodo sul Corriere della sera e altre grosse testate, portando nelle casse dei giornali parecchi soldi. In cambio dei quali, in un colpo solo, il “quotidiano della CEI” ha sorvolato su un paio dei dieci comandamenti: “non ammazzare” ma anche “non dire falsa testimonianza”. Infatti il testo ospitato dall’Avvenire era estremamente reticente, al limite del falso, sulla principale attività di Finmeccanica. Che produce armi non solo difensive, ma anche per l’attacco, strumenti sofisticati estremamente devastanti, destinati a tutt’altro scopo che la salvaguardia e la restaurazione della pace, o le azioni di polizia internazionale che, sulla base della Costituzione, dovrebbero essere le uniche attività militari consentite alle nostre forze armate. Finmeccanica produce gli “strumenti di lavoro” per operazioni che un cristiano dovrebbe cercar di evitare e, se ad esse obbligato, dichiarare la propria obiezione di coscienza. Il paginone pubblicitario, che alludeva genericamente ad attività nel campo della difesa senza che vi comparisse l’aggettivo militare, evidenziava soprattutto il numero delle persone occupate: 75.000 posti di lavoro, di cui 45.000 in Italia. Non so se ciò basti a giustificare Avvenire. Con la stessa logica si potrebbero pubblicizzare la prostituzione, le attività mafiose, la produzione dei farmaci abortivi: settori che danno lavoro a molte persone! Purtroppo, quella pubblicità mi è sembrata emblematica di una Chiesa che fa sempre più fatica a parlare di pace, a educare alla pace, a prendere le distanze dalla guerra e dagli apparati militari. Una Chiesa che ripetutamente accetta e benedice le cosiddette “operazioni di pace” anche quando si tratta di interventi armati miranti soprattutto a tutelare interessi strategici ed economici dell’Occidente. Anche ultimamente, purtroppo in occasione delle esequie di militari italiani uccisi in Afghanistan, si assistite a riti e omelie in cui chi celebra non si limita all’annuncio della morte e risurrezione di Gesù e della speranza cristiana nella vita eterna, ma sconfina in concetti e toni da “religione civile” con forme neanche troppo implicite di avallo a interventi bellici sbrigativamente definiti di tutela della pace, chiamando senza esitazione “operatori di pace” i militari coinvolti. Credo che sia il caso di fermarci a riflettere sul significato che sempre più chiaramente assumono le missioni militari all’estero del nostro paese, a cominciare dall’Afghanistan: operazioni di cui è sempre più arduo definire la plausibilità, l’obiettivo, la durata. Per di più, con la fine di fatto (se non di diritto) dell’esercito di leva, gli operatori della difesa sono persone che scelgono liberamente una professione ad alto rischio, con relativi alti compensi. La Patria, la bandiera, gli ideali hanno lo stesso valore simbolico per tutti i militari che scelgono questo “mestiere”? Che differenza c’è, nella sostanza, rispetto ad altri lavori pericolosi e ad altre morti sul lavoro? E quali sono i “ritorni” di natura politica e anche economica di queste operazioni? Pur in presenza di legittimi dubbi sull’ambiguità del concetto di “difesa”, sono in atto forme di propaganda tra i giovani del servizio militare, in particolare gli stages nei diversi corpi delle forze armate di ragazzi e ragazze, con il rilascio di crediti formativi. In contemporanea, il servizio civile si avvia alla scomparsa per i continui tagli apportati dal governo a quel che sopravvive dell’esperienza; con il colpevole oblio del significato che ha avuto per molti dei nostri giovani, in termini di educazione alla pace e alla solidarietà. Uno dei pochi settori statali (l’unico?) su cui non si è abbattuta la scure di Tremonti è la difesa, o meglio il riarmo, dal momento che il ministro Ignazio La Russa si prepara a firmare il contratto per la fornitura di ben 131 aerei da guerra, onorando così un impegno assunto 12 anni fa dal governo presieduto da Massimo D’Alema. Costo finale stimato: oltre 15 miliardi di euro. Gli aerei in questione sono del tipo Joint Strike F 35, cacciabombardiere monoposto molto sofisticato. Una ricerca dell’Archivio disarmo lo definisce “dotato di grande forza distruttiva e in grado di trasportare armi nucleari”. La recente legge di stabilità (l’ex finanziaria) ha stanziato i primi 471 milioni, la cifra iniziale che consente all’Italia di partecipare alla progettazione e costruzione del nuovo aereo da guerra (per fare un raffronto, alle politiche familiari sono stati assegnati 47 milioni). Ma questa è solo una voce del nutrito programma approvato, con l’astensione del PD, dalla Commissione difesa del Senato: 10 elicotteri, siluri per sommergibili, armamenti da attacco da montare sugli elicotteri, mezzi navali, mortai e altro, per una cifra totale che si aggira sui 700 milioni da spendere da qui al 2018. All’aumento della strumentazione militare si accompagna la progettazione di insediamenti e strutture logistiche a supporto dell’utilizzo dei mezzi militari. Proprio a Pisa, la mia città, l’aeroporto militare sarà ampliato per diventare un hub, vale a dire una struttura di smistamento del traffico aereo e di tutto ciò che dovrà essere inviato all’estero per operazioni militari concertate in relazione alle alleanze strategiche internazionali. Queste forme di espansione dell’attività militare avvengono con poche e incomplete informazioni ai cittadini, mentre è pressoché scomparso il controllo parlamentare sulla produzione e la vendita di armi. Le amministrazione locali, indipendentemente dal colore politico, vedono di buon occhio attività che forse porteranno un po’ di lavoro e di denaro al territorio. Fermiamoci un poco a riflettere, chiediamoci se le strategie in atto da parte dell’occidente, Italia compresa, siano il mezzo più adatto a difendere la pace, combattere il terrorismo, avviare processi verso la democrazia. è sotto i nostri occhi il fallimento di interventi come quelli in Aghanistan e in Iraq. Proprio in quest’ultimo paese il Papa ha lamentato, nel recente messaggio per la giornata della pace, il diffondersi della violenza contro i cristiani: non è uno degli effetti della guerra “contro il male”? All’accresciuta militarizzazione della politica estera, corrisponde il quasi totale smantellamento, da parte dell’Italia, della cooperazione allo sviluppo ridotta a stanziamenti irrisori, frammentari, emergenziali, peraltro causa di notevoli difficoltà per le ONG e il volontariato internazionale; una delle principali voci di spesa è per il respingimento degli immigrati. Ciò attesta l’indifferenza delle istituzioni, e anche di larga parte della società civile e dei mass-media, verso la povertà planetaria, la fame, la disperazione dei popoli più poveri soprattutto nel continente africano. In pochi anni è quasi scomparsa la sensibilità maturata in occasione del Giubileo del 2000 per la remissione del debito estero dei paesi più poveri. A questo punto mi chiedo se la Chiesa italiana non possa e non debba manifestare preoccupazione, prendere la parola contro le prospettive di riarmo e l’assenza di politiche di cooperazione internazionale, rilanciare l’educazione alla pace soprattutto delle nuove generazioni. Fatico a capire perché questa attenzione non debba essere altrettanto forte delle ripetute prese di posizione contro l’aborto e l’eutanasia, a difesa della sacralità della vita e del suo valore inviolabile. Affinché questo avvenga, oso lanciare dalle colonne di Settimana una proposta: che la CEI, nella prossima assemblea generale, metta all’ordine del giorno il tema della pace e la responsabilità rispetto ad essa di chi ci governa, prendendo una posizione chiara, precisa, evangelica contro l’aumento delle spese militari e in particolare contro l’adozione da parte delle forze armate italiane di strumenti tipicamente offensivi. Ogni credente, ogni battezzato – preti, laici, religiosi, religiose – che ha a cuore la pace come dono di Dio affidato all’umanità, ogni cittadino cristiano che crede in Gesù Cristo “che è la nostra pace” e vuole rispettare la Costituzione che “ripudia la guerra” si faccia portatore della richiesta al proprio Vescovo. Non è tempo per affliggersi o recriminare, per rassegnarsi o arrabbiarsi: con umiltà, rispetto e fiduciosa speranza manifestiamo ai nostri pastori il desiderio di pace affinché, se lo crederanno opportuno, diano voce, forza e riconoscimento a una passione che è nel cuore di tanta parte del popolo di Dio don Antonio Cecconi parroco di Calci e della Valgraziosa (Pisa) 18 gennaio 2011

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