un esemplare funiciello sulle primarie da "Europa"

Primarie, non maneggi Parlare delle primarie è come parlare della formazione della nazionale: siamo o no un popolo di commissari tecnici? La grande popolarità delle primarie - di quello che non è un fine dell’iniziativa politica del Pd ma un suo specifico modo d’essere - è il più forte argomento contro gli antiprimaristi. Le primarie sono state l’unica intuizione politica in grado di dare una risposta civica e popolare al populismo berlusconiano. In diciassette anni di seconda repubblica, il centrosinistra ha sempre passivamente subito l’offensiva populista della leadership del centrodestra, salvo quando ha mostrato nelle televisioni delle famiglie italiane le immagini delle code dei votanti ai seggi delle primarie. Nei quartieri borghesi e in quelli delle periferie metropolitane, nelle grandi città e nei piccoli comuni montani, in un miscuglio vincente di avvocati e insegnanti, imprenditori e pensionati, donne e uomini, italiani ed extracomunitari: quelle file ai seggi hanno avuto, nella stragrande maggioranza dei casi, un effetto entusiasmante sull’impegno di dirigenti politici, militanti ed elettori. L’invenzione delle primarie ha prodotto l’unica occasione storica in Berlusconi si è trovato nelle condizioni di dover ricorrere il centrosinistra: il Pd, il partito delle primarie, è nato prima del Pdl, che non sarebbe mai stato fondato se il centrosinistra non fosse riuscito a sfidare Berlusconi sul quel terreno della popolarità politica proprio di uno strumento di partecipazione alla decisione democratica come le primarie. Le primarie hanno dovuto poi soffrire la chirurgia non richiesta di chi, adattandole agli scopi del ceto politico del centrosinistra, ne ha spesso snaturato la ragion d’essere. E ancora s’incarica di castigarne le potenzialità democratiche, ad esempio immaginando che per votare alle primarie ci si debba iscrivere un anno prima a un qualche registro di aventi diritto. In America si fa così, sproloquia chi di America non sa niente. Una piccola ricerca su Google basta a smentire costoro. Sulla rete (inserire nella stringa le sole due parole “fabbrini primarie”) si trova, infatti, disponibile un piccolo saggio del professor Sergio Fabbrini che spiega cosa sono le primarie negli Usa. Anzitutto, non c’è in America un regolamento uniforme per tutti e 51 i suoi stati federati: il funzionamento delle primarie varia da Arizona a Minnesota, da Oregon a Georgia. Comunque, spiega Fabbrini, solo in 15 stati su 51 tocca iscriversi prima all’albo degli elettori. Da un anno prima (New York) a quindici giorni prima (South Dakota): differenze non di poco conto. Negli altri 36 stati, un cittadino che non avesse le idee chiare su chi votare alle presidenziali, può verificare liberamente che fare con le primarie organizzate da Democratici e Repubblicani. L’articolo di Fabbrini è del 2002 e le variazioni dei regolamenti, ad oggi, non sono di gran conto. L’ha pubblicato una rivista assai interessante, ma evidentemente poco letta dai simpatizzanti del circuito politico su cui insiste: Italianieuropei. Tuttavia, ammettiamo pure che un qualche albo degli elettori si debba fare: le cose sarebbero andate meglio a Napoli? No, perché è del tutto evidente che il problema delle primarie napoletane non è stata l’anarchia del popolo che ha risposto disordinatamente alla chiamata alle urne primariste, determinando confusione e conseguenti anomalie. I disastri delle primarie partenopee sono stati prodotti dai maneggi di frange di ceto politico, che hanno drogato il voto in alcun seggi portando a votare frotte di elettori o predisponendo pacchetti di voti preconfezionati. Il filtro di un albo degli elettori servirebbe soltanto ad ingigantire il potere di inquinamento di queste frange di ceto politico. Le quali potrebbero così falsare il voto sia nella giornata della sua celebrazione, sia nel periodo di compilazione dell’albo degli aventi diritto. Albi che, se già di per sé (come è dimostrato) riducono drasticamente la partecipazione alle primarie, gestiti da tali frange scellerate pregiudicherebbero l’esito del voto orientandolo nella direzione preferita. Cosa si poteva fare allora a Napoli? Stabilire che, a fronte di 4 partecipanti (Cozzolino, Ranieri, Mancuso, Oddati), il vincitore avrebbe dovuto superare la quota del 40% dei consensi e, in caso contrario, predisporre un ballottaggio tra i primi due. Non è una novità per Napoli: un anno fa, alle primarie per scegliere il candidato alla presidenza della provincia (tra Nicolais, Vozza e Allodi), questa soglia era stata fissata. Se oggi il regolamento l’avesse prevista, le polemiche sarebbero state diminuite d’intensità dal rimando al turno di ballottaggio. La soglia di sbarramento sarebbe valsa pure come deterrente nei confronti delle frange di ceto politico di cui sopra: il turno secco le ha indotte a dare il peggio di sé; lo sbarramento le avrebbe naturalmente cautelate. Il Pd deve, insomma, chiarirsi le idee: se decide di conservare le primarie – tratto caratterizzante del suo modo d’essere – deve salvaguardarle dalle degenerazioni a cui possono essere sottoposte. Che a Napoli il Pd sia un partito lacerato lo sanno pure i torrioni del Maschio Angioino: andavano prese tutte le precauzioni del caso per ovattare lo scontro tra i pretendenti alla candidatura a sindaco. Se, invece, il Pd vuole continuare a giocare al meccano e ipotizzare riforme e riformicchie che appesantiscano il peso del ceto politico nella “gestione” delle primarie, allora si decida di cancellarle definitivamente. Senza timori reverenziali e impotenze, ma assumendosene schiettamente la responsabilità politica. Antonio Funiciello

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