Un astro nel firmamento della Chiesa

In un discorso  al Collegio Cardinalizio, pronunciato nel giugno del 1975, “momento centrale dell’Anno Santo”, Paolo VI sottolineava  come “la realtà interiore della Chiesa /.../ rifulge in modo speciale, con uno splendore esemplare, perché vi è contenuta tutta la ricchezza della Sposa di Cristo «senza macchia né ruga . . . ma santa e immacolata» (Eph. 5, 27), nei modelli che abbiamo proposto, e che proporremo durante quest’anno all’imitazione e alla venerazione di tutti i nostri figli. Vogliamo dire i Beati e i Santi, che abbiamo avuto la grazia di dichiarar tali/.../. Sono nuovi astri, umili e luminosi, che brillano nel firmamento della Chiesa, per indicare agli sguardi dell’uomo moderno, spesso abbacinati da fonti di luce artificiale, o perduti nel vuoto siderale del dubbio o della disperazione, che la vita vale la pena di essere vissuta per Dio e per i fratelli, e che, al di là del suo effimero traguardo, vi è il giudizio di Dio, e il premio senza fine riservato ai servi buoni e fedeli (Cfr. Matth. 25, 21. 23; Luc. 19, 17).”   A quasi quarant’anni di distanza, l’immagine evocata da Paolo VI (in una bellezza ed efficacia non occasionali nella prosa di questo Pontefice di grande finezza  spirituale, culturale ed estetica) mantiene intatta tutta la propria forza:  non si potrebbero trovare parole più pertinenti di quelle da lui pronunciate, per illustrare il senso profondo della beatificazione di Papa Montini, che il prossimo 19 ottobre sarà proclamata a Roma dal suo successore Francesco. La santità non ha bisogno e non è oggetto di ratifiche umane. La Chiesa non è un tribunale spirituale che emette sentenze ultraterrene, ma è un cielo (un mistero insondabile e sublime donato alla terra) in cui la grazia di Dio risplende nella miriade senza numero di singole storie personali in cui essa è stata accolta come esemplare  risposta di vita, di amore, di servizio “per Dio e per i fratelli”. La  proclamazione di un nuovo santo o beato, ammonisce il Papa in questa magnifica meditazione, non è un’operazione di promozione mondana (“innalzare agli onori degli altari” si diceva in altre epoche),   ma precisamente l’invito a guardare al di là dell’ “effimero traguardo” del successo umano,  a contemplare nel segreto intangibile di un’esistenza il mistero della sua unione con Dio, per farne testimonianza da seguire, esempio da imitare, luce cui orientarsi, consolazione e incoraggiamento per i credenti, spesso affaticati dal buio “del dubbio o della disperazione”. Qual è dunque la lezione spirituale che la beatificazione di Paolo VI ci invita a riconoscere e meditare? Qual è la luce unica e singolare che la figura di questo Papa  ha acceso nel firmamento della storia dell’umanità e della Chiesa? Quale modello di servizio ci propone il suo percorso di vita? La risposta è particolarmente complessa, nient’affatto scontata, quando il modello additato alla venerazione dei fedeli è un Papa, un cristiano  benedetto e gravato dal carisma più grande, quello di successore di Pietro, di Vicario di Cristo in terra. In questo caso, il riconoscimento  della santità personale è inevitabilmente, inestricabilmente coniugato al (e condizionato dal)  giudizio storico sullo svolgimento del suo ministero, sul suo “successo” come Papa. Mantenere i due aspetti separati è impossibile, come visibilmente riconosciuto dalla Gerarchia:  è noto che negli ultimi anni vari processi di beatificazione  e di santificazione dei Pontefici sono stati accelerati  o al contrario ritardati, se non  (almeno provvisoriamente)  bloccati,  da considerazioni legate principalmente alla loro opportunità storica ed ecclesiale. La santità personale non è eventualmente in questione, ma essa non può essere ufficialmente assunta a  modello canonico se il ruolo pubblico resta controverso, non è oggetto di un consenso sereno e incondizionato, libero da ogni ricaduta conflittuale interna o esterna alla Chiesa. Se sarebbe sbagliato concludere con questo (come denunciato frettolosamente da qualcuno) che le canonizzazioni dei Papi sono atti politici, non si può dunque neppure ignorare che esse sono atti pubblici, con cause e implicazioni ecclesiali rilevanti: la fulminea canonizzazione di Giovanni Paolo II si è prodotta sull’onda di una forte e genuina esigenza  popolare (santo subito era l’invocazione avanzata dall’impressionante mobilitazione di fedeli all’indomani della sua morte), mentre l’accelerazione del processo di santificazione di Giovanni XXIII è indissociabilmente legata all’attestazione rinnovata della centralità del Concilio Vaticano II. Egualmente, c’è una precisa intuizione alla base della determinazione con cui Papa Francesco ha ripreso in mano l’iter della beatificazione di Paolo VI, agganciando il suo passo finale, nel prossimo 19 ottobre, alla chiusura del Sinodo straordinario sulla  famiglia: i credenti hanno bisogno in questo momento di guardare a Paolo VI come a un modello di servizio alla Chiesa per affrontare alcune delle sfide centrali del nostro tempo. A mezzo secolo di distanza, questo Papa  - attraverso la sua azione e il suo insegnamento - dice qualcosa che dobbiamo ancora fare nostro, da cui abbiamo ancora molto da imparare, e lo fa innanzitutto chiedendoci di  mettere in questione alcune categorie di giudizio su cui si adagia pigramente la nostra lettura della storia, di oltrepassare l’automatismo della nostra razionalità umana, che ci induce a scrutinare il valore di un pontificato in termini di successi e di sconfitte e  di polarità  ideologiche  (riforma  vs. conservazione), per aprire gli occhi su un mistero più profondo, dischiuso dalla sua santità. Per cogliere la grandezza di Paolo VI  bisogna insomma lasciarsi alle spalle il piano degli “effimeri traguardi” terreni, perché non è qui che emerge l’essenziale della sua figura, certamente non descrivibile come quella di un Papa ‘vincente’. Come sostenuto da una vulgata storiografica molto diffusa (implicitamente accettata tanto dai suoi ammiratori che dai suoi denigratori,  e fattore  primario  dell’oblio relativo di questa figura: per anni,  Paolo VI è stato ‘dimenticato’, nell’ombra del titanico Giovanni Paolo II),  Papa Montini è stato al contrario uno ‘sconfitto’, logorato soprattutto negli ultimi anni dalla mancanza di consenso, dal dramma di una Chiesa indebolita e divisa, in crisi di identità, destabilizzata dal secolarismo galoppante della società, dai conflitti interni, da frammentazione, fuoriuscita, anarchismo: navicella sballottata in un mare in tempesta, con la ciurma  in rivolta (erano gli anni in cui la “Chiesa del dissenso” faceva sentire la propria voce, autorevole e fiorente come una sorta di contro-Chiesa), che il Papa avrebbe cercato invano di governare. La solitudine crescente del tratto finale del suo pontificato non ha fatto in realtà che portare alla luce il fatto che sin dall’inizio Paolo VI non ha promosso e coltivato un ‘partito del Papa’ e non si è mai lasciato incasellare in nessuno dei fronti ecclesiali aperti dalla stagione conciliare (“Troppo  progressista per i conservatori, troppo conservatore per i progressisti” secondo il celebre adagio coniato al suo riguardo).  Certo, essenziale è stato  il suo impegno nel portare a buon fine l’azione di riforma della Chiesa promossa da Giovanni XXIII con l’apertura del Concilio Vaticano II. A lui si deve la regia attenta e sapiente che ha prodotto i documenti basilari del Concilio e la sua conclusione; a lui si devono la successiva salda implementazione della riforma liturgica, una radicale riforma della Curia, un’azione instancabile e feconda di promozione dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, in piena fedeltà al principio della libertà religiosa abbracciato dal  Concilio con Dignitatis Huamanae.  A lui si deve l’intuizione internazionalista del necessario superamento dell’occido-centrismo tradizionale del cattolicesimo, nel riposizionamento  della Chiesa su orizzonti mondiali, in risposta all’evoluzione della società e della politica: le spinte globalistiche sono lucidamente anticipate nelle sue letture della contemporaneità  – a cominciare da quelle elaborate nella Populorum Progressio. A lui si deve la messa in pratica appassionata e incrollabile  dell’insegnamento conciliare centrale, secondo cui la Chiesa non è in conflitto ma in dialogo con la modernità – una realtà non da condannare e combattere, ma da “comprendere, amare e servire”, pur se con critica attenzione di discernimento. Ma a quest’azione di limpida prosecuzione della riforma della Chiesa e dell’aggiornamento conciliare si affiancano alcune scelte e linee di governo della Chiesa di segno diverso, se non opposto, che al momento della loro implementazione suscitarono una levata di scudi da parte del fronte più ‘progressista’, venendo interpretate come un battuta d’arresto nel cammino di rinnovamento aperto dal Concilio: riaffermazione netta e senza compromessi del primato papale (rilanciato tanto in termini di principio che di fatto, in una serie rilevante di decisioni dottrinali e disciplinari)   contro le richieste più avanzate di collegialità; congelamento del dibattito del ruolo della donna nella Chiesa; chiusura radicale ad ogni aggiornamento nel campo della morale familiare e sessuale con l’Humanae Vitae. Il Papa inviso ai conservatori per la sua incondizionata fedeltà ad un impegno vasto e profondo di  riforma della Chiesa (sua, tra l’altro, la prima esplicita condanna dei tradizionalisti e la sospensione a divinis di Lefebvre; sua la dismissione  della Corte papale e dei corpi armati del Vaticano, ad eccezione della Guarda Svizzera; suo un primo massiccio  depotenziamento e rimodellamento della Curia), non è stato  un Papa benvisto dai ‘progressisti’, né popolare  tra le masse, intimidite dalla sua riservatezza di intellettuale incapace di semplificazioni comunicative e dalla sua ardua raffinatezza teologica.  Per questo Montini è stato un Papa sempre più solitario, provato da un calvario di  critiche e incomprensione (dopo la Humanae Vitae non volle scrivere più encicliche, per evitare che la violenza del dissenso usurasse l’autorevolezza di questo strumento di magistero papale).  ‘Paolo Mesto’, lo sbeffeggiavano i denigratori, ignorando volutamente  di quanta gioiosa fiducia nella grazia consolante di Dio fosse illuminata l’afflizione di questo Pontefice, non a caso autore di un documento sulla gioia cristiana: Gaudete in Domino (9 maggio 1975). La vicenda Moro,  che ne ha certamente accelerato la fine (Paolo VI morì solo tre mesi dopo l’assassinio dello statista), è il tragico atto finale di una progressiva, dolorosa delegittimazione pubblica   della sua figura:  il Papa che si era inginocchiato pubblicamente agli uomini delle Brigate Rosse, supplicando la loro clemenza,   fu pubblicamente umiliato prima dai terroristi, che ignorarono la sua preghiera e massacrarono Moro, e poi dalla famiglia del leader democristiano, che non partecipò alla funzione funebre di suffragio celebrata a San Giovanni in Laterano con la presenza di Montini. Fu come se l’impotenza del Papa venisse pubblicamente denunziata dagli opposti fronti della violenza politica e del lutto privato di una famiglia cattolica, che decideva di escludere dal proprio cerchio la partecipazione sofferente del Pontefice. C’era bisogno, si chiese qualcuno, di esporre la figura del capo della Chiesa Cattolica alla prova di una tale umiliazione pubblica?  Il cordoglio personale determinato da  un antico vincolo di amicizia non aveva sopraffatto in questo caso la lucidità ‘politica’ del Pontefice, rendendolo incapace di riconoscere la non opportunità del suo duplice gesto? Oggi, a distanza di anni e sollecitati dall’invito mosso dalla beatificazione, è arrivato il tempo di leggere le cose in un'altra luce: dal punto di vista dello storico è senz’altro necessario impegnarsi nello scrutinio discriminante  di errori e intuizioni profetiche,   sconfitte e successi di questo Papa (personalmente ritengo che l’Humanae Vitae sia stato un grande errore, così come lo sono state una serie di decisioni – in particolare le chiusure rigide sul ruolo della donna e le resistenze nell’attivazione di meccanismi più diffusi  di collegialità e di partecipazione laicale), ma dal punto di vista spirituale quello che conta è riconoscere la matrice di fondo che ha modellato il pensiero e l’azione di questo Papa e che forse non è del tutto forzato ricapitolare nel binomio di umiltà e fedeltà all’autonomia della coscienza in quanto portato di una assunzione, tanto critica quanto serena e aperta, della modernità. In questa prospettiva, riconoscere la propria appartenenza alla  modernità, con il suo valore centrale dell’autonomia della coscienza, non comporta, da parte del credente, l’orgoglio luciferino di un soggetto che si pretende come autosufficiente e fondativo, ma al contrario radicalizza e approfondisce la percezione, illuminata dalla rivelazione cristiana, dei limiti creaturali inerenti alla natura peccatrice dell’uomo. Proprio perché la coscienza è titolare insostituibile e non delegittimabile  della responsabilità etica ultima della persona, non esistono coperture dogmatiche, istituzionali, scientifiche, politiche, ministeriali, che totalizzino la concreta decisione etica a giustizia assoluta, il singolo giudizio a verità assoluta: ogni decisione umana è per principio fallibile, ogni giudizio è falsificabile, e la grazia e la croce dell’uomo è dover fare i conti precisamente prima di tutto con la propria coscienza, con il limite della propria costitutiva imperfezione, della propria permanente potenziale cecità. Nella sua dimensione terrena, anche la Chiesa è segnata intrinsecamente da questo limite, come ripetutamente ribadito dal Concilio: è indissolubilmente santa e peccatrice.  I suoi ministri non sono superuomini superiori all’errore (lo stesso Papa è insindacabilmente, univocamente ispirato dallo Spirito solo nelle rarissime occasioni in cui parla ex cathedra) e l’umiltà che deriva da questa consapevolezza deve accompagnare i credenti in tutto il loro cammino di fede, anche nei ministeri più alti. è certamente  significativo che l’indissociabile nesso tra coscienza, riforma della Chiesa e dialogo con il mondo e la modernità, costituisca l’architettura esplicita che regge l’Ecclesiam Suam, la prima enciclica di Paolo VI, così come è indubbio che l’acutezza di questa intuizione e della relativa esigenza sia maturata in Papa Montini anche grazie al  suo appassionato legame con il mondo della cultura e dell’università (in gioventù fu prima assistente del gruppo Fuci di Roma e poi, per quasi dieci anni, della Fuci Nazionale) e alla sua frequentazione profonda e sistematica della produzione filosofica del Novecento, alimentata da amicizie personali con pensatori del calibro di Maritain. Proprio per questo, nell’essere Papa che non ha mai ricusato il peso di decisioni e insegnamenti formulati in solitudine (come nel caso della Humanae Vitae, che azzerò consistenti maggioranze teologiche e pastorali dissenzienti), Paolo VI non è mai stato neppure figura di autarchica arroganza, di potere decisionistico e monolitico,  ma ha incarnato al contrario un modello di ascolto costante e comprensivo, di dialogo instancabile  e profonda umiltà (e la centralità di questo suo carisma fu rilevata come lascito esemplare dal suo diretto successore, Papa Luciani, che ne incarnò la valenza mistica in un mistero mai sciolto di ‘umiltà temporale’, perché Luciani fu non contingentemente ma provvidenzialmente un ‘Papa che passa, che non resta’. Sarebbe certamente fecondo riflettere dal punto di vista di una teologia della Chiesa sul mistero temporale di questa figura così poco frequentata).  Non solo il pontificato di Montini è costellato di azioni esemplari di umiltà  (la rinuncia all’uso della tiara e la sua messa in vendita; l’abbraccio ad Atenágora e il bacio al piede del suo rappresentante Melitone, metropolita di Calcedonia; il bacio di arrivo al suolo dei Paesi visitati, in occasione dei viaggi pastorali; il suo inginocchiarsi agli uomini delle Brigate Rosse; il suo esporsi, con la lettera ai terroristi, a un rifiuto che poi ci fu),  ma tutto il suo insegnamento risplende di questo atteggiamento di fondo (un’umiltà e una mitezza equivocate  dai critici  per incertezza “amletica” e mancanza di fermezza, in un  Papa che al contrario seppe anche duramente decidere): tutto ascoltare, tutto comprendere, e in primo luogo profondamente amare, perché la Verità è il mistero d’amore con cui Dio si dona agli uomini e non l’oggetto di un sapere di cui è depositaria una minoranza privilegiata dell’umanità. C’è un ruolo insostituibile di magistero della Chiesa al servizio della Verità e dell’unità dell’umanità, ma questa elezione non è un privilegio bensì un servizio splendido e gravoso, che nella responsabilità etica di scelta storica che esso comporta è sempre suscettibile di fallimento ed errore  (in un rischio insito nella sproporzione tra la nostra finitezza umana e la infinita trascendenza della grazia divina). Il Papa ‘impopolare’, introverso e riservato (sprovvisto della bonomia,   della comunicativa spontanea e calorosa che resero  Giovanni XXIII un’icona universale della Chiesa materna promossa dal Concilio, così come non aureolato della ‘regalità’ con cui   Giovanni Paolo II soggiogava le folle), fu in realtà un Pontefice che si espose personalmente, scavando un distinguo visibile e profondo tra il  proprio ministero e la propria persona, rimpicciolendo questa rispetto alla grandezza di quello: evitando accuratamente l’identificazione tra ruolo e figura (spontanea in Giovanni XXXIII, programmatica in Giovanni Paolo II), mettendo ancora di più l’accento sulla propria individuale irrilevanza quando la grandezza del ministero richiedeva decisioni eventualmente divisive. Per questa ragione il conflitto non è stato evitato dal Papa, ma al tempo stesso  è stato vissuto da lui  come un martirio personale (Giovanni XXIII l’ha neutralizzato nella spinta entusiastica delle aurore che sorprendono e sgominano preventivamente le resistenze con la forza d’urto delle novità inattese,  Giovanni Paolo II l’ha vissuto come un’offesa al proprio ministero, spersonalizzandolo nella superiore legittimità dell’istituzione), perché  sofferto come un vulnus interiore, bruciante interrogazione sull’adeguatezza della risposta individuale alla responsabilità ministeriale. Nell’asimmetria insormontabile tra le due si dispiega il mistero indisponibile, da contemplare con rispetto e timore, formulato nella domanda, puntualmente rinnovata ad ogni nuova azione, di quanto l’operato umano sia strumento della Grazia divina, di quanto la risposta dell’uomo sia in sintonia con la chiamata di Dio. In quest’ottica, nell’ottica di Paolo VI,  il Papa deve decidere, perché ogni cristiano deve decidere (l’urgenza etica della chiamata consiste precisamente nel fatto che la responsabilità è patrimonio esclusivo della coscienza), e rinviare, delegare, sarebbe un tradimento morale, ma ogni decisione è storicamente contingente  e non assolutizzabile, risposta limitata e inadeguata a quella Verità che nessuno possiede, perché è mistero di comunione. La tensione tra fedeltà alla Verità come unitiva ingiunzione etica all’assunzione di responsabilità,  e fedeltà alla Verità come riconoscimento disgiuntivo della sua infinita trascendenza rispetto alla contingenza delle sue mediazioni nella vicenda  storica e individuale è una dinamica insolubile, che dal punto di vista cognitivo alimenta l’inappagamento permanente  del  credente, costituendo quella “spina nel fianco” di paolina memoria che è perenne ammonizione di umiltà. Ma l’inquietudine cognitiva che mantiene aperta la coscienza a uno scrutinio instancabile della propria debolezza e fallibilità   non si risolve in angosciata, claustrofobica frustrazione,  perché trova pace, cristianamente, nella gioia estroversa della misericordia del perdono di Dio e della comunione di carità con i fratelli.  Se il riconoscimento del principio di autonomia della coscienza mette l’uomo a tu per tu con la propria libertà e con il peso di errore e sconfitta che essa comporta, l’abbandono all’amore di Dio risana la solitudine e la fatica di questa condizione, aprendola alla sua dimensione comunitaria, di coappartenenza al Popolo di Dio e a quell’umanità cui la Parola deve essere annunciata. Il Papa che ha fatto della libertà di coscienza e dell’umiltà che ne deriva per l’individuo l’intuizione centrale della propria spiritualità, è stato il Papa che ha messo al cuore del proprio magistero la comunione ecclesiale (salvaguardare l’unità della Chiesa è stata la costante, incrollabile missione del suo pontificato) e il primato dell’annuncio, il Papa che con l’Evangelii nuntiandi ha scritto il proprio grandioso testamento per la Chiesa a venire.   Indicandoci Paolo VI come astro umile e luminoso nel cielo della Chiesa, Papa Francesco ci dice oggi di guardare in lui l’umiltà di chi ha vissuto nella consapevolezza  che non può essere santo chi non si riconosca peccatore, di chi ha saputo vedere meglio di molti altri che se il lascito irrinunciabile  della modernità è di consegnare all’uomo il peso dell’autonomia della propria coscienza e dell’errore insito nella sua finitezza di creatura, il credente  non può annullare  le proprie responsabilità dietro l’assoluto di cui non è titolare ma semplice testimone e servitore,  e deve perciò essere pronto ad affrontare il martirio dell’errore, della solitudine, della sconfitta, sapendo che solo Dio ha le chiavi della storia. Il Papa che si è inginocchiato invano alle Brigate Rosse, che ha preso su di sé umiliazioni e fallimenti, è il Vicario sulla terra  di quel Cristo che  si è fatto mettere in croce e non ha convocato le schiere degli angeli, o Elia, perché venissero a salvarlo. Perché la storia è un mistero redento dal sacrificio e dall’amore e non dalle vittorie e dagli effimeri successi umani.    

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