un altro sì motivato alla riforma: l'editoriale di Luigi Covatta su Mondoperaio di maggio
editoriale Finis Austriae Luigi Covatta La retorica della finis Austriae si è spesso intrecciata con quella della fine dell’Europa: e non senza ragioni, visti gli esiti nel tempo dell’infelice pace di Versailles. Ora però a Vienna è difficile incontrare epigoni di Roth e di Musil, di Klimt e di Schiele, di Freud e di Wittgenstein: l’Austria piccola piccola inventata a Versailles non produce più grandi geni, ma solo borghesi a loro volta piccoli piccoli. Ad onor del vero non produce neanche credibili epigoni di Hitler. Il problema, infatti, non è Hofer che prende il 35% dei voti al primo turno delle presidenziali: il problema sono i socialisti (e i popolari) che non sanno che pesci prendere al secondo. Per ora lisciano il pelo alla destra. Poi, alla vigilia del 22 maggio, può darsi che sostengano svogliatamente Van der Bellen. Infine raggiungeranno le rive dell’Acheronte, dove avranno tempo di meditare nell’aere senza stelle in cui si muovono quanti vissero senza infamia e senza lode, “Non ragioniam di lor ma guarda e passa”, dice Virgilio a Dante. Noi però non possiamo esimerci dal continuare a ragionare: di loro e non solo di loro. Anche dell’azzeramento del potere di coalizione del Psoe, che difficilmente verrà ripristinato il 26 giugno dagli elettori spagnoli; della disinvoltura con la quale Hollande fa affari in Nord Africa; del disorientamento del Labour a guida Corbyn alla vigilia del referendum del 23 giugno; dell’operoso silenzio con cui i socialisti tedeschi partecipano al governo. Nelle pagine che seguono Alberto Benzoni e Luigi Capogrossi mettono bene in rilievo le conseguenze che la crisi del socialismo europeo rischia di avere sulla stessa struttura democratica delle società occidentali: mentre Michele Abbate, illustrando la performance di Bernie Sanders, evidenzia il sostegno delle nuove generazioni americane alla sua candidatura. Anche in Europa, del resto, per riproporre un’idea socialista sarà bene affidarsi innanzitutto ai giovani: anche perchè nella struttura sociale del XXI secolo la dinamica dei conflitti non si configurerà più nella forma della lotta di classe, ma in quella della “lotta di classi”, come ha osservato di recente Giuseppe De Rita. Benzoni e Capogrossi, che non nascondono il loro scetticismo rispetto ad astratte e futuribili “costituzioni europee”, ci ricordano che le istituzioni democratiche “non sono nate né all’Onu né nei tribunali internazionali, ma all’interno dei singoli Stati nazionali, e con lunghe lotte politiche”. Si può aggiungere che la precondizione per condurre le lotte politiche oggi necessarie per rinnovare insieme il socialismo e l’Europa è la formazione di un’opinione pubblica europea, come suggeriamo nel dossier dedicato alle prospettive della comunicazione in un continente disconnesso non solo dal punto di vista istituzionale. La condizione principale, però, resta pur sempre la volontà politica: per esempio quella che il governo italiano sta manifestando nel confronto con la Commissione europea sulle politiche migratorie e sulle strategie per la crescita. Con buona pace dei sacerdoti del “vincolo esterno” e dei loro ripetitivi corifei che ancora pontificano sulle pagine dei principali quotidiani, infatti, l’Italia non sta mendicando indulgenze per i propri conti pubblici, ma sta indicando all’Unione una via d’uscita dalla propria crisi. Del resto quello che sfugge ai nostri provinciali commentatori non sfugge ai più disincantati osservatori esterni: da ultimo ad Anatole Kaletsky, che non risulta far parte del “giglio magico” e che non ha mai messo piede alla Leopolda. Il capo economista di Gavekal Dragonomics (ed autore di Capitalism 4.0) addirittura pronostica che l’Italia “potrà surclassare i goffi dinosauri tedeschi, le cui antiquate dottrine e regole stanno portando l’Unione europea all’estinzione”: e così porre rimedio al declino dell’egemonia tedesca. E se può darsi che Kaletsky pecchi di ottimismo circa le fortune di Renzi, sicuramente non manca di lucidità nell’individuare la responsabilità storica che si prospetta al nostro paese, ed insieme alla famiglia politica di cui Renzi fa parte. In Italia, però, c’è ancora chi discetta di “partito della nazione”, e soprattutto chi si pone come imperativo categorico quello di “fermare Renzi”. Non tanto il giudice Morosini, che ormai - con le sue interviste e le sue smentite - è già bell’e pronto per una brillante carriera politica. Piuttosto l’allegra brigata che si appresta a muovere guerra in vista del referendum alla riforma costituzionale. E’ una brigata in cui i “saggi di Lorenzago”, che volevano trasformare l’Italia in Repubblica federale, si affiancano ai feticisti della Costituzione del ’48, che hanno trasformato l’articolo 138 in una specie di comma 22, nonchè ai neoroussoviani a cinque stelle (che non si sa bene che cosa difendano, visto che la Carta del ’48 poco concede alla democrazia diretta). Il guaio è che Brunetta e Di Maio, Salvini e la De Petris, La Russa e Fassina, con la benedizione di Zagrebelski e Rodotà, vedono la democrazia in pericolo perché il Senato non sarà più elettivo (o magari perché non ci sarà più il Cnel), e non perché l’Unione europea sta cadendo a pezzi , con tutte le conseguenze che le due guerre mondiali del secolo scorso possono suggerire: si preoccupano del raffreddore mentre il cancro si estende. Si dirà che anche illustri costituzionalisti si stanno schierando per il no. Si potrebbe dire che la riforma della Costituzione è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai costituzionalisti. Ma è meglio fare presente che di costituzionalisti ce ne sono molti altri, non necessariamente meno illustri, che la pensano in modo diverso. Magari potrebbero confrontarsi in un seminario, e lasciare le piazze ai politici di strada. E quanti vorranno potranno certamente confrontarsi anche sulla nostra rivista. Noi però non possiamo dimenticare che sono passati quasi quarant’anni da quando, proprio su queste colonne, si aprì il dibattito sulle riforme istituzionali. Allora la nostra era una vox clamantis in deserto, anche se già da allora era evidente la necessità di correggere la deriva assemblearista in cui era caduta la nostra democrazia parlamentare. Fra di noi non mancò chi, sulla scia di quanto sostenuto alla Costituente da Piero Calamandrei, propose addirittura di mutare radicalmente la forma di governo in senso presidenzialista. Ma tutti comunque convenimmo sull’opportunità di rafforzare l’esecutivo e di semplificare il procedimento legislativo, sull’esempio di altre democrazie europee che pure adottavano la forma di governo parlamentare. Poi le vicende dei primi anni ‘90 fecero sì che si operasse una cesura nella continuità del sistema politico con una semplice riforma elettorale, prescindendo dalla pur necessaria revisione della Costituzione: ed avere preferito regolare diversamente dal passato i rapporti di forza senza provvedere a regolare di conseguenza i rapporti fra le forze è causa non ultima della crisi politica che stiamo vivendo. A sanare questo vizio d’origine del nuovo sistema politico, del resto, non sono serviti neanche i velleitari tentativi di mutare la forma di Stato in senso federalista: ed è fra i meriti della riforma che verrà sottoposta a referendum avere corretto le incongruenze che di quei tentativi sono state il frutto. Senza dire che portare nella legislazione nazionale il punto di vista delle Regioni (come del resto prevedeva il disegno originario della riforma del 2001) varrà a superare conflitti di competenze che attualmente si affollano davanti alla Corte costituzionale, quando non sfociano addirittura, come è avvenuto di recente, nella convocazione di referendum popolari. Quanto ai rapporti fra governo e Parlamento, non si può ignorare che oggi, benchè il governo non sia così forte come in altri paesi, il Parlamento è sempre più debole, come denunciano per primi proprio i tutori del bicameralismo paritario: mentre è presumibile che regolando con maggiore chiarezza gli equilibri fra le due istituzioni entrambe si rafforzino. A nessuno sfugge, peraltro, che il testo che verrà sottoposto al giudizio degli elettori non risolve tutti i problemi, e presume anzi ulteriori interventi di adeguamento dell’edificio costituzionale. E’ auspicabile che essi prendano corpo in un contesto meno condizionato da opportunismi politici di cortissimo respiro, come quelli che hanno condizionato negativamente l’iter parlamentare della legge di revisione. Così come è auspicabile che gli elettori sanzionino lo sfrenato politicismo del variegato ed incoerente fronte degli oppositori: se c’è qualcuno da “fermare”, sono loro.
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