Servono nuovi schemi di gioco, di Giorgio Armillei
In piena pandemia molte cose sono cambiate, come molti e
decisivi sono gli assetti che si vanno ridefinendo a partire dal 2019. La Commissione
Von der Leyen, Bergoglio con Fratelli tutti, Biden e Draghi sono brani di una
stessa partitura. Democrazia liberale e Unione europea riprendono la scena, il
nazionalismo identitario comincia ad abbandonarla. Tramontano le stelle
populiste e il conservatorismo dei valori non negoziabili, al netto di sacche
di resistenza fatte di interviste e dichiarazioni, prende atto che una stagione
si è chiusa.
Sono assetti che ancora si caratterizzano per lo più secondo
una logica di contenimento e non di innovazione. Pensiamo al welfare alle prese
con la sua terza grande transizione. Dopo la fase fondativa tra le due guerre nel
‘900; il successo dei “gloriosi trenta” sino alle fine degli anni settanta; il
ridisegno alla fine del secolo imposto dalle aperture della globalizzazione, si
presenta ora la necessità di una sua ricalibratura post statale. Il gigantesco
intervento dei bilanci pubblici della fase pandemica non è una rivincita del
welfare. Ha certo sconfitto il rischio di una recessione devastante ma non ha
inventato un nuovo modo di coniugare dinamismo e protezione: sta efficacemente contenendo
senza ancora innovare.
Per stare allo scenario italiano, PD e M5s cambiano con
tutte le differenze del caso le loro leadership, a dimostrazione che lo
scossone del governo Draghi genera onde che non si fermano. C’è una reazione
che si estende anche a Forza Italia mentre gli unici che restano diversamente fermi,
pur avendo dovuto subire chi in un modo chi nell’altro il passaggio al governo
Draghi, sono Lega e Fratelli d’Italia. Resistere stando fermi e sperando che il
2023 arrivi al più presto per incassare una vittoria elettorale è una speranza
vana tanto quanto quella di chi nel PD spera di nascondersi dietro Draghi per rimediare
un’alleanza con Grillo. Tutti convinti che si possa restare comodamente seduti
lungo la frattura destra sinistra. Ma la frattura destra sinistra secondo il
canone novecentesco ha perso vigore e non risuscita mentre Draghi fa il suo
lavoro. Le nuove questioni che si vanno ponendo dall’inizio del XXI secolo l’hanno
ridimensionata e in qualche modo messa in secondo piano.
Di fronte a tutto questo destra e sinistra
liberaldemocratiche, quasi ovunque spinte a convivere in forme più o meno
strutturali, non dispongono di elaborate speranze su cui edificare convincenti
alternative. Alleate nel combattere e vincere l’incubo nazional populista in
casa propria, così come sempre più consapevoli della minaccia turco russo
cinese, diversa per dimensioni ma presente in ogni scacchiere internazionale,
mancano della costruzione o ricostruzione di un nuovo riferimento comune dentro
il quale alimentare una stagione di democrazia dell’alternanza.
In questo quadro il governo Draghi rappresenta uno strumento
di ritorno alla normalità nelle policy ma non ce la fa ad essere allo stesso
tempo motore di innovazione nella politics. Può perfino rischiare di diventare
un anestetico allo stesso tempo necessario e pericoloso. Un anestetico che va
somministrato per aprire la strada a un intervento profondo ma più l’intervento
ritarda più l’anestetico minaccia la vita del malato. Si può uscire dal
nazionalpopulismo e lo stiamo facendo ma poi occorre ritrovarsi in uno schema
di competizione politica che ripristini il gioco della democrazia competitiva.
Senza la lucidità di uno sguardo di medio periodo è infatti impossibile
rimettere al suo posto un interventismo che salva dalla recessione ma minaccia
di spegnere il dinamismo creativo, quando come in questo periodo il 60% di
coloro che hanno ricevuto sostegni non avevano mai avuto a che fare con misure
di questo tipo. Quando il rischio della trappola del welfare è dietro l’angolo.
O quando il pericolo di innescare dinamiche inflattive che possono sfuggire di
mano merita grande attenzione, come non l’ortodossia monetarista ma democratici
come Summers mettono in evidenza.
Qui possiamo individuare un punto che distingue le diverse letture della situazione. Tutti sono consapevoli della straordinarietà di questa fase ma diverse sono le lenti con le quali si guarda a questa straordinarietà. C’è chi si colloca in questa fase lavorando sinceramente al superamento dell’emergenza ma immaginando di trovare alla fine del tunnel una riedizione del bipolarismo: è un po' quello che fa Letta quando lancia un rassemblement del centrosinistra propedeutico all’alleanza con il Movimento 5 stelle. Al contrario c’è chi prende atto degli smottamenti che hanno spostato l’asse di rotazione del sistema politico, non più sostenuto da dinamiche solo interne.
L’europeizzazione della politica trasforma la divisione tra interno e esterno,
tra nazionale e sovranazionale in una nuova e dominante frattura politica: l’uscita
dal tunnel non avrà una variante di destra e una variante di sinistra ma una
variante che si chiude nelle dimensioni nazionali e una variante che gioca
sull’intreccio sovranazionale. Nella variante nazionale finiscono posizioni di
destra e di sinistra, recessive rispetto al comune riferimento nazionale.
Riferimento che non è articolabile come semplice nazionalismo – che pure è
presente e influente, come dice Papa Francesco in Fratelli tutti – ma come
convinto statalismo, come definizione di un confine che solo consentirebbe
operazioni di redistribuzione, è il caso di un Dani Rodrik ad esempio. Così
come avviene nella variante sovranazionale, come dimostrano i casi assai diversi
ma accomunati dalla medesima logica della maggioranza Macron e della
maggioranza Ursula. Non si tratta di occasionali rassemblement messi in piedi
per far fronte a una sfida temporanea ma di diverse ricombinazioni di politcs
rispetto ad una sfida di lungo periodo: il declino dello stato e dell’asse
destra sinistra.
Biden, papa Francesco e Draghi non sono estranei a tutto
questo ma non sono e non possono essere generatori di risposte strutturali, per
ovvie e diverse ragioni. Hanno messo fuori gioco, delegittimato e sterilizzato
il pericolo nazionalpopulista. Al più presto i giocatori veri debbono tornare in
campo: servono squadre, allenatori e leader che abbiamo inteso il cambiamento d’epoca.
Non si può riprendere a giocare con i vecchi schemi.
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