Ruini e la democrazia

Il post di Teresa Bartolomei (Ruinismo, poliarchia e dintorni cattolico democratici) solleva una serie di interrogativi di grande importanza. Io vorrei concentrarmi su due proposizioni con le quali mi sembra ragionevole sintetizzare alcune sue principali tesi. La prima riguarda Ruini. Teresa ci dice: il ruinismo non va tanto valutato sul piano intraecclesiale - sul quale comunque Ruini non merita poi tanta disponibile comprensione - quanto su quello del rapporto tra la Chiesa e la democrazia. Con Ruini questo rapporto fa un passo indietro, se ci mettiamo dal punto di vista del Concilio. In particolare riemerge un atteggiamento strumentale verso la democrazia, concepita come un mezzo per il raggiungimento di fini ad essa esterni. Si finisce così con il porre la democrazia sotto la tutela della Chiesa tutte le volte che la democrazia si scopre povera di un solido ancoraggio ad un’etica pubblica non relativistica. Il che, è questo il punto centrale di Teresa, configge con l’atteggiamento speculare e contrario della tradizione cattolico democratica che si fonda, invece, sul rifiuto di una concezione strumentale della democrazia vista come regime in debito di fini eticamente fondati. La seconda proposizione riguarda la poliarchia. Qui Teresa fa due operazioni. Innanzi tutto individua in tutto il fermento landiniano sulla poliarchia, le posizioni di quelli che in un altro post avevo chiamato lib-lan, un principale e forse dominante riferimento teorico, il pensiero del politologo americano Dahl. E poi sottopone le tesi dei lib-lan ad un’analisi comparativa condotta su un’esegesi dei testi di Dahl dalla quale scaturisce un verdetto di questo tipo. Le tesi sulla poliarchia dei lib-lan hanno un difetto di fabbrica: sociologizzano il pensiero di Dahl fino a dimenticare che il suo nocciolo resta pur sempre una teoria dello stato democratico, e quindi una teoria nella quale politica, stato e democrazia non arretrano di fronte ad altre sfere sociali. In particolare non arretrano di fronte alla sfera economica. Fin qui Teresa. Naturalmente il suo ragionamento contiene anche molti altri passaggi ma io vorrei aprire una discussione su questi due. Torniamo a Ruini. In verità il mio precedente post non si inoltrava nell’analisi dei presupposti teorici del ruinismo, si limitava piuttosto a constatare l’insufficienza di una lettura un po’ ideologica di quella stagione a vantaggio di un ragionamento condotto secondo i criteri dell’analisi storica, per i quali la definizione delle alternative realmente disponibili fa da argine alle astrattamente infinite, o numerose, possibilità di critica. Men che mai il mio discorso tendeva ad una rivalutazione in chiave progressista del ruinismo. Io mi limitavo ad osservare come il ruinismo abbia preso atto dell’esaurirsi della spinta propulsiva del cattolicesimo democratico e abbia tratto, prima di altre componenti e correnti ecclesiali, il massimo estraibile dall’evoluzione del sistema politico italiano verso un assetto maggioritario. Un assetto, per altro, cui Ruini ha tentato di resistere in molti modi, difendendo ad oltranza il criterio dell’unità politica dei cattolici sulla base di argomenti di tipo, dice lui, etico e antropologico. E che ha poi progressivamente fatto proprio, anche in dissenso rispetto a stratificate culture proporzionalistiche e neocentriste del mondo ecclesiale, fino alle recenti sue prese di posizione in materia di forma di governo, di federalismo e di sistema elettorale. Questa conversione maggioritaria di Ruini è a mio avviso il passaggio fondamentale del suo contributo alla modernizzazione del sistema politico ed anche del rapporto tra la comunità cristiana e la vita politica del paese. In questo senso Ruini ha svolto una positiva funzione di cambiamento. Ora, replicherebbe Teresa, a spese di quale concezione della democrazia si compie questa conversione? Il realismo di Ruini corrisponde ad una torsione del rapporto tra Chiesa e democrazia? Ci porta di nuovo all’indifferentismo ecclesiale verso la democrazia, o ad una sua forma attenuata che consiste nel mettere la democrazia sotto la tutela delle agenzie di formazione dell’etica pubblica, essenzialmente della Chiesa cattolica per quanto riguarda almeno il nostro paese? La questione, ulteriore rispetto al ragionamento puramente storico del mio post, è indubbiamente centrale. La mia impressione è che Ruini non compia il salto all’indietro di cui parla Teresa. In realtà Ruini affida alla democrazia la soluzione delle controversie, diciamo così, intorno all’etica pubblica. Mettendo anche in discussione - le oscillazioni del suo ragionamento sul punto non sono poche - il primato del diritto naturale, a ragione ritenuto non più praticabile in un contesto di radicale pluralismo dei riferimenti valoriali. In un passaggio di una sua prolusione al VII Forum del progetto culturale del 2005 afferma, a proposito delle controverse intorno all’etica pubblica, come “occorra affidarsi, anche in questi ambiti, al libero confronto delle idee, rispettandone gli esiti democratici anche quando non possiamo condividerli”. Dunque Ruini non abbandona la democrazia ad una logica di tutela etica ma sottomette la soluzione delle controversie dell’etica pubblica alle regole della democrazia medesima. Il punto qui diventa però un altro. Quale idea di democrazia struttura il pensiero di Ruini e quale idea di democrazia struttura invece il post di Teresa? A me sembra questa la domanda cruciale. Tento una risposta. L’idea di democrazia non è la stessa. Ruini lavora con una concezione pragmatica, analitica, di democrazia, strumento di soluzione delle controversie relative alle decisioni collettive. Teresa lavora, non è una scoperta, con una concezione normativa, continentale, di democrazia, strumento storicamente disponibile per attualizzare le condizioni di possibilità del discorso morale. Ora, estremizzando in modo un po’ sommario, se vogliamo spiegare il ruinismo possiamo utilizzare Habermas? E se vogliamo criticare il ruinismo ci conviene usare Habermas? Io penso - toccando un punto sul quale il post di Teresa invece sorvola con un accenno che rimanda ad un’analisi da fare - che non possiamo usare Habermas e che non ci conviene usare Habermas. Non possiamo usare Habermas perché la critica habermasiana della democrazia liberale - seppure in continua evoluzione - sfugge all’orizzonte dell’oggetto principale del nostro ragionamento. Non ci conviene usare Habermas perché il punto debole del ruinismo non è relativo alla teoria sociale quanto all’interpretazione della situazione della Chiesa italiana. Riporterei l’attenzione su questo aspetto: le problematicità del ruinismo sono ecclesiali e non politiche. Primo elemento di problematicità: la lettura della storia della Chiesa italiana degli ultimi 30 anni. Qui Ruini individua una linea di discontinuità - il convegno di Loreto del 1985, “soprattutto a motivo del discorso di Giovanni Paolo II” come dice in un articolo su Vita e pensiero del 2004 - che non corrisponde alla storia, soprattutto alla storia del paese. Nel discorso di Giovanni Paolo II a Loreto c’è sì una discontinuità, ma è una discontinuità di grado e non di sostanza. In altri termini la presenza pubblica del cattolicesimo italiano post conciliare non comincia nel 1985. Due date per tutte: il primo convengo ecclesiale del 1976 e il documento “La Chiesa italiana e le prospettive del paese” del 1981. Due date di fortissima presenza pubblica della Chiesa che non a caso, in quell’articolo, Ruini salta limitandosi a trovare una continuità tra Loreto e l’Evangelii Nuntiandi di Paolo VI. Due date segnate dall’egemonia della cultura della scelta religiosa del Concilio e dell’Azione cattolica, scelta tutt’altro che incline alla privatizzazione e all’irrilevanza pubblica della fede. Alla quale Ruini contrappone, pur provenendo dalla stessa tradizione, il modello della nuova evangelizzazione. Qui sta il punto. Non è il caso di tentare ora il bilancio di quella discontinuità – che tuttavia è molto distante da quel nuovo inizio che Ruini (ed anche la relazione di Riccardi, ad esempio, per il centenario delle settimane sociali di Pisa-Pistoia del 2007) identifica nel 1985 – ma certo occorre chiedersi quale sia la condizione oggi della Chiesa italiana a 25 anni da Loreto. Secondo elemento di problematicità: la mancata elaborazione di antidoti contro gli inevitabili contraccolpi del processo di centralizzazione ecclesiale. Se sono storicamente spiegabili le spinte “strutturali” alla centralizzazione, l’implementazione delle regole del nuovo Concordato, sono invece poco comprensibili le lacune pastorali che hanno accompagnato questa centralizzazione. E piuttosto difficili da collocare, nel quadro del concilio (Gaudium et spes, 43) gli orientamenti espressi da Ruini sin dal 1991. Torno a citare da una sua prolusione al Consiglio permanente del marzo di quell’anno. Per Ruini si sarebbe dovuta aprire, a partire da quegli anni, una fase nuova della CEI, in relazione sì al nuovo Concordato ma anche - e soprattutto - per un’altra ragione. Una ragione “connessa con la necessità di una presenza pubblica della Chiesa in Italia che abbia una vera e adeguata dimensione nazionale, ruolo che in via principale, anche se certamente non esclusiva, può essere esercitato soltanto dai vescovi e quindi, nella pratica quotidiana, attraverso lo strumento della Conferenza episcopale”. Ora, al di là del fatto che qualche vescovo ha osservato come questo abbia significato poi, sul piano concreto, un passaggio dalla Conferenza episcopale al Consiglio permanente, dal Consiglio permanente al suo Presidente e dal suo Presidente alle sue prolusioni, resta che non c’era motivo per ritenere che la stessa funzione non dovesse essere assolta, altrettanto in via principale, dal laicato associato, ad esempio da quella forma particolare non storicamente contingente ma teologicamente motivata di organizzazione del laicato espressa nell’Azione cattolica. Per dirla in breve, anche qui con una notevole dose di semplificazione, Ruini modernizza il rapporto tra la Chiesa italiana e il sistema politico maggioritario, anche suo malgrado, saltando le resistenze cattolico democratiche e accettando la sfida della democrazia competitiva. La fa da cattolico liberale e su posizioni conservatrici. Ma spesso i conservatori sono più riformisti dei progressisti. Allo stesso tempo centralizza l’azione della Chiesa italiana nell’ottica della nuova evangelizzazione, creando spesso un cortocircuito tra ecclesiologia e sociologia delle comunicazioni di massa, vince sul questo secondo fronte – come nota anche Teresa – ma lascia la Chiesa italiana in condizioni non certo migliori di quelle del lontano 1985. Sempre restando in punto di analisi storica, a dire il vero, resta una domanda alla quale dovremmo prima o poi tentare di rispondere: quali alternative concrete forniva a quella data la cultura conciliare nella Chiesa italiana? Ruini ha silenziato il laicato o ha coperto la progressiva afasia del laicato? Perché l’egemonia della scelta religiosa è andata dissolvendosi? Il secondo pilastro del ragionamento di Teresa riguarda la ricostruzione che alcuni landiniani fanno del concetto di poliarchia o forse, ancora meglio, l’uso che ne fanno per innovare la tradizione del cattolicesimo politico. Il ragionamento di Teresa può essere condiviso a due condizioni: che il pensiero di Dahl sia così organico come lei lo descrive e che, soprattutto, Dahl sia effettivamente la principale fonte di ispirazione dei lib-lan. Sul primo punto Teresa ha ragione a metà; sul secondo penso che il quadro che lei disegna sia un po’ riduttivo. Cominciamo dal primo punto. Certo, Dahl finisce, nel suo itinerario intellettuale, con il pensare la poliarchia come forma del sistema politico, come tipo di democrazia politica. Eppure, soprattutto nella prima fase della sua riflessione, la prospettiva è più ricca e la poliarchia non ha a che fare con il solo sistema politico. Pur essendo questa la finalizzazione teorica del concetto, nel primo Dahl troviamo anche un quadro analitico nel quale la poliarchia è assetto del sistema sociale nel suo complesso, dei rapporti tra leadership e gruppi sociali, delle forme di regolazione sociale, corrispondente ad un quadro di divisione sociale dei poteri, di pluralità organizzata di attori sociali collocati in diverse sfere sociali. L’idea di poliarchia è infatti contemporaneamente interna alla politica (è una sua possibile forma) ed esterna (è la somma delle caratteristiche sociali che la rendono possibile). C’è insomma una diversità di sfumature nel pensiero di Dahl. E’ da queste sfumature che prende il via l’uso che i lib-lan fanno della poliarchia come forma più complessa di pluralismo sociale, in grado di definire non solo le condizioni di funzionamento delle democrazie contemporanee ma anche i rapporti tra le diverse sfere sociali: economia, politica, religione, scienza, etc. A questo diverso registro del pensiero di Dahl, e qui veniamo al secondo punto delle osservazioni di Teresa, si deve aggiungere quanto nelle proposte dei lib-lan proviene da altri riferimenti teorici. Sono questi riferimenti, e non Dahl, a costituire la base di quel modello orizzontale di relazioni tra sfere sociali, inclusa quella politica, sul quale emerge il disaccordo di Teresa. Il ragionamento slitta impercettibilmente ed entra in campo la questione dello stato. Il cuore del ragionamento che Teresa prende in esame sta proprio qui: è la sovranità dello stato sulla politica e della politica sulla società ad essere presa di mira da questo uso della poliarchia. E naturalmente è questa sovranità ad essere messa in discussione. A questo proposito Teresa cita ovviamente Luhmann, ma la questione trova anche molti altri interpreti. Politica, economia, religione e diritto fuoriescono da un quadro rigido di tipo gerarchico: questo è il punto sul quale possiamo ritrovare Walzer (che conserva per altro tracce di un primato della sfera politica), Teubner, Cassese, Rosenau, Nye, Moravcsik. E’ Walzer a dirci che ogni bene sociale costituisce una sfera sociale (relativamente) autonoma dalle altre e che non c’è subordinazione gerarchica tra le sfere sociali. E’ Teubner a dirci che la globalizzazione economica e quella giuridica non mettono in discussione l’autonomia dei diritti e del diritto ma solo la pretesa monopolistica dello stato. E’ Cassese a dirci che lo scavalcamento dello stato non produce un deficit democratico perché non c’è un’autorità superiore dalla quale occorra difendersi. Sono gli studiosi di politica internazionale, Rosenau, Nye, Moravcsik, a cui sono ovviamente familiari modelli non gerarchici, a parlare di “governance without government”, a respingere l’analogia tra controllo nella democrazia rappresentativa statale e controllo nei rapporti tra i poteri dell’ordinamento globale, ad analizzare meccanismi di controllo non democratico dei poteri sovranazionali. E’ una parte della teologia statunitense (public theology, covenant theology) a dirci che la politica è solo una delle sfere sociali, che regola aspetti limitati anche delle altre sfere sociali senza avere alcun primato e, anzi, essendo in qualche caso essa stessa regolata dalle altre sfere sociali (Stackhouse). In buona sostanza è il primato monista dello stato democratico rappresentativo a cedere rispetto alla globalizzazione giuridica. Lo spiega molto bene Maria Rosaria Ferrarese in un suo recente libro sulla governance. Si tratta di rinunciare ad una conquista della modernità, come dice Teresa, “incarnata dallo Stato di diritto e dalla sua tutela giuridica della dignità umana dei cittadini”? Penso di no, penso piuttosto che ci troviamo di fronte ad una variate della modernità, dove troviamo Locke, Tocqueville, Rosmini ma anche Simmel o, più avanti, la versione societaria di welfare di un Titmuss. Il “ruolo di regolatore dirimente dell’architettura sociale” che Teresa conferma si debba continuare a riconoscere ad una concezione essenzialmente politica di democrazia non finisce con il somigliare molto a quel “mito vetero europeo dell’ordine” segnalato da Luhmann? Postilla sul dossettismo. Ho lasciato fuori dal discorso la questione del dossettismo che ha un carattere specifico ed essenzialmente di interpretazione storica. Penso però utile tentare qualche chiarimento. Innanzi tutto: il dossettismo non coincide con il cattolicesimo democratico. Non ci sono dubbi. Non solo. Una parte del cattolicesimo democratico si trova, per diversi punti,  in dissenso rispetto al dossettismo. Pensiamo a queste parole di Silvestrini dedicate ad Andreatta. «Da Dossetti Andreatta imparò a porre la sua intelligenza al servizio di una visione improntata a un' etica rigorosa ed esigente. Ma a me pare che Andreatta avesse elaborato, attraverso un duro travaglio di coscienza e di pensiero, una propria visione politica, che lo portava ad adottare anche soluzioni non ovvie nel mondo cattolico. Non escludeva il ricorso alla forza per risolvere controversie internazionali, ammetteva tagli di personale per il risanamento delle imprese. Lo ricordo sostenere questa tesi con Prodi, allora presidente dell' Iri, naturalmente proponendo poi adeguate soluzioni per chi avrebbe perso il lavoro. Su temi come quello dell' economia di mercato, delle privatizzazioni, della collocazione atlantica, Andreatta non fu dossettiano”. In secondo luogo quella che i lib-lan definiscono come critica al dossettismo non si distanzia di una virgola dal corpo centrale dell’analisi che Scoppola faceva di Dossetti. “Dossetti parte [dice Scoppola] da una forte polemica contro lo stato liberale, del quale non vede o sottovaluta l’evoluzione in senso democratico, così da giungere ad auspicare una forte discontinuità; discende da questa polemica la risoluta affermazione di una concezione finalistica dello stato” con la quale Dossetti finisce con il riproporre “quel tradizionale concetto di bene comune in sé definito e non frutto della dialettica delle realtà presenti nella società”. E’ il Dossetti del discorso sullo stato del 1951, nel quale lo stato “fa la società”, non la crea ma la fa, “traendo il corpo sociale dall’informe”. Lo stato ha infatti una funzione di reformatio del corpo sociale”. In terzo luogo, nell’analisi del dossettismo molta storiografia, penso a Pombeni, rintraccia gli elementi tipici della tradizione della socialdemocrazia del novecento: come dicevo nel mio post precedente, la fine del secolo socialdemocratico non può non trascinare con sé gran parte del pensiero di Dossetti. Per finire una riflessone di carattere, invece, più politico. Tutto il percorso dossettiano sviluppato a “difesa” della costituzione ha prodotto una bolla di conservatorismo costituzionale che non ha giovato all’equilibrato compiersi della transizione politica. Ha finito infatti con il mettere in moto un movimento di arroccamento anziché di sviluppo della cultura costituzionale, con il quale si finisce con il ritenere le nuove forze politiche nate nella seconda fase della repubblica come di per sé incostituzionali. Il che, se fosse vero, porrebbe non pochi problemi in termini di effettività dei valori costituzionali, di costituzione in senso materiale, prendendo sul serio questa formula e non certo utilizzandola per superficiali ragioni di polemica. Insomma il dossettismo ha finito con il ritardare l’evoluzione del quadro costituzionale, in forme involontariamente simmetriche alle forzature dei radicalismi di parti del centrodestra. La bolla prima o poi esploderà così come il radicalismo del centrodestra.

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