Rileggendo il 25 aprile, di Giorgio Armillei

La festa del 25 aprile è stata l’occasione per riprendere in
mano vecchie letture. Qualche pagina dei libri che nella prima metà degli anni
novanta avevano dato vita a un appassionato dibattito in una fase di turbolenta
transizione. Liberazione, resistenza, guerra civile irrompevano con nuova
energia nella discussione pubblica, fin dentro la celebrazione del 25 aprile. Festa che forse per la prima volta, quantomeno
a livello di opinione pubblica, usciva dall’unanimismo retorico resistenzialista,
dalla polarizzazione ideologica degli anni settanta, dal reducismo di ogni
parte e anche dall’imbarazzato silenzio di molti.
Non che la discussione tra gli addetti ai lavori non fosse
già intensa e piena di conseguenze anche di tipo politico. Basti ricordare
l’intervista sul fascismo di De Felice che nel 1975 aprì un dibattito durissimo
tra gli storici e sui quotidiani. O il saggio di metà anni ottanta di Pavone
sulla Resistenza e la guerra civile. Ma il clima ideologizzato e ancora diviso
in blocchi di quegli anni confinò quel dibattito entro i recinti degli
schieramenti, con pochi anche se in qualche caso autorevoli esempi di
smarcamento.
Quindici anni dopo furono Pavone, Scoppola, Galli della
Loggia, Rusconi, De Felice, Tranfaglia, De Luna, Aga Rossi e altri a riportare
sul palcoscenico tutti quei temi. Il dibattito seguiva di pochi anni la caduta
del muro di Berlino e il precedente accesissimo confronto in Germania sull’eredità
del totalitarismo, sul “passato che non vuole passare”, sull’uso pubblico della
storia. In quel caso si erano mossi giganti come Habermas, Nolte, Fest,
Hillgruber e altri. La questione tuttavia era la stessa: l’eredità del
totalitarismo, il ritorno alla democrazia e il senso attuale della comunità
nazionale in relazione a quella eredità e a quel ritorno.
Non ho le competenze per tentare una ricostruzione di quel
dibattito, rimetterne in ordine gli interrogativi e renderlo spendibile ancora
oggi. Né questa sarebbe la sede adatta per un’operazione del genere. Mi limito
quindi a un ricordo, che è anche un’autocritica, e a una riflessione per la
discussione di questi giorni.
L’assetto che aveva retto il sistema politico italiano, a
partire dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla nascita della
Repubblica, veniva meno nella prima metà degli anni novanta. Secondo qualcuno
non solo l’architettura delle istituzioni politiche attraversava un radicale
momento di trasformazione. Anche l’intero sistema dei rapporti tra politica ed
economia, un sistema che durava dagli anni venti, stava per essere sostituito
da un nuovo modo di concepire la “costituzione economica” intrecciata con il
sempre più intenso prevalere del diritto europeo su quello statale. In un certo
senso era la costituzione materiale del paese a subire un processo di adattamento,
in tutte le direzioni: politcs, policy e polity.
Le esigenze di rottura – nella continuità del quadro
costituzionale liberal democratico – erano molto forti. Portarono anche a
qualche punta di eccesso. Ricordo ad esempio che il piccolo libro di Scoppola
sul 25 aprile, primo di una serie Einaudi dedicata alla formazione di un
lessico civile, lasciò qualcuno tra noi insoddisfatto. Il percorso seguito da
Scoppola, equidistante dal revisionismo storiografico come dalla vulgata resistenzialista,
ci apparve troppo timido, in qualche modo suscettibile di essere
strumentalizzato da chi – dentro il duopolio conservatore della cultura post
democristiana e della cultura post comunista – ancora si sentiva in grado di
ostacolare i processi di cambiamento che si erano avviati con i referendum
istituzionali del 1991 e del 1993. E lo faceva tentando di delegittimare l’allora
nascente centrodestra proprio sul terreno della fedeltà costituzionale. Insomma,
la partita era ancora aperta e Scoppola finiva con il rischiare di dare una
mano ai conservatori.
Era una lettura sbagliata. Al contrario il tentativo di
Scoppola di svincolare la memoria del 25 aprile dagli opposti vicoli ciechi
dell’uso di parte della categoria della guerra civile (per il quale la
riconciliazione richiede l’azzeramento della differenze tra le posizioni) e
della mistificazione della resistenza come fenomeno unitario (nella quale non
si voleva riconoscere l’esistenza di più guerre dentro lo stesso contesto
territoriale e militare) aveva un senso destinato a sopravvivere alla polemiche
di quegli anni. E ad essere riscoperto come cruciale per il momento che stiamo
vivendo, nel quale identità nazionale e sovranità si sono trasformate in
formidabili strumenti di chiusura e di separazione.
La Resistenza che secondo Scoppola il 25 aprile festeggiava,
e doveva continuare a festeggiare, parlava invece una lingua diversa, nella
quale la nazione si coniugava con esigenze e diritti universali, diremmo oggi
globali. Certo, occorreva allargarne il concetto stesso, senza nascondere
tuttavia il peso della parte più strettamente militare, ma evitando di restringerlo
solo a quella e addirittura a chi – in quella azione militare – vedeva solo le
ragioni di una guerra di classe. Destinata per altro a sfociare in un
drammatico slittamento da un totalitarismo all’altro. Non più quindi solo
“resistenza armata, e neppure solo resistenza passiva, ma è giusto chiamarla
passiva solo perché non armata? […] Ma anche resistenza di famiglie, di donne travolte
dalle prove della guerra, di popolazioni esposte alla prova di tremendi
bombardamenti” dice Scoppola a proposito del 25 aprile nel vissuto degli
italiani.
Solo in questa prospettiva, conclude Scoppola, si può
definire un legame permanente tra la Resistenza e la storia del paese, tra la
Resistenza e la nazione, tra la nazione e le esigenze della giustizia e dei
diritti, giustizia e diritti che avrebbero cominciato di lì a poco a parlare il
linguaggio sovranazionale dell’ordine internazionale, di quello comunitario e
poi via via del diritto europeo e del diritto globale.
È questa l’eredità che ancora oggi parla al paese e parla
all’intera Unione europea, stretta in un passaggio nel quale nazionalismo e
sovranismo ne sfidano le possibilità di crescita e quindi di futuro. Questa
volta, a differenza di 25 anni fa, nessuno tenta di usare strumentalmente la
carta della fedeltà costituzionale per delegittimare una delle parti. La
delegittimazione in corso è invece opera di una delle parti verso il sistema
nel suo insieme, verso l’intreccio liberale tra ordine statale, ordine
sovranazionale e ordine globale. In questo specifico significato la linfa
universalistica del 25 aprile – depurata di ogni inquinamento di parte - alimenta
ancora oggi l’albero della tradizione costituzionale nazionale ed europea.
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