Ridurre l'orario di lavoro per aumentare i posti di lavoro? di Giuseppe Croce

Questa settimana esperti ed esponenti dei 5Stelle hanno ritirato fuori l’idea di una riduzione dell’orario di lavoro – a parità di salario – come via per aumentare l’occupazione. Sembra allettante. Tanto l’obiettivo (maggiore occupazione) quanto lo strumento (minore orario di lavoro) rappresentano dei “beni” in sé. Ed è quanto è avvenuto nel lungo periodo nell’ultimo secolo nelle economie avanzate: gli aumenti di produttività del lavoro si sono riversati in redditi crescenti e orari decrescenti.

Allora mi sono andato rileggere la proposta “lavorare meno lavorare tutti” di Tarantelli del 1984. Ma le differenze sono abissali. Primo, per Tarantelli la riduzione di orario era a parità di salario orario, non mensile. Anzi, perfino i contributi andavano ridotti proporzionalmente. Secondo, la riduzione è su richiesta del lavoratore, non imposta o forzata per legge. Anzi, Tarantelli prevede che possano essere soprattutto le famiglie con due percettori di reddito e un figlio a carico le più inclini ad approfittarne. Questo indica che la proposta presuppone che si sia raggiunto un discreto reddito così da voler scambiare ulteriori incrementi con minore orario. Terzo, doveva essere contrattata “caso per caso, azienda per azienda”, riconoscendo il vincolo rappresentato dalle condizioni (eterogenee) di costo delle imprese. Inoltre, si augurava di produrre l’effetto collaterale di una maggiore diffusione della contrattazione decentrata.

Oggi, dopo una stagnazione della produttività ventennale e i salari fermi da anni, gran parte dei lavoratori italiani forse preferirebbe lavorare un po’ di più per integrare le proprie entrate. Né è realistico dire “a parità di salario” a meno di pensare la proposta come manovra redistributiva a carico delle imprese. Ma allora potrebbe essere pesantemente negativo il segno dell’effetto sull’occupazione.

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