Ricordo per "Confronti costituzionali"
Rileggere (per ricordare) Duverger Autore: Stefano Ceccanti 24 dicembre 2014 Qualche mese fa il costituzionalista francese Dominique Rousseau, dovendo scrivere un contributo per gli scritti in onore di Jean-Claude Colliard ha in realtà pubblicato un dialogo immaginario intitolato Rileggere Duverger in cui spiega perché andrebbe riscoperto il grande studioso, che era stato peraltro il relatore di Colliard. L’interlocutore gli chiede che senso possa avere ritornare a prima degli anni Ottanta, al periodo in cui non era ancora centrale, come lo è stata in seguito, l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale. In realtà, senza dirlo esplicitamente, Rousseau ha così rilanciato l’idea di riproporre l’attualità di Duverger, che era stata tematizzata tra gli altri dallo stesso Colliard, da Bastien Francois e da vari altri autori, nel bel numero 17 del 2010 della Revue internationale de politique comparée dedicato monograficamente a Duverger e che peraltro è completamente leggibile on line. La tesi di Rousseau è che le due fasi sono in realtà complementari, che i nuovi vincoli posti al potere politico dalla nuova centralità della giustizia costituzionale non negano affatto le nuove istituzioni centrate sulla decisione, affermatesi con la Quinta Repubblica. Quale fu negli anni Cinquanta la “rivoluzione Duverger”? Quella di comprendere grazie alla scienza politica, alla sociologia, alla storia sociale, in particolare dedicandosi allo studio dei partiti, quali fossero le ragioni del fallimento della Costituzione della Quarta Repubblica. L’intento non era quello di diluire il carattere prescrittivo del diritto, ma invece di capire, sulla base della comprensione del contesto, quali nuove e diverse norme costituzionali ed elettorali fossero in grado di conformare diversamente il sistema. Impressionante, ad esempio, come giustamente si dice, leggere il dibattito del 1961 con Mitterrand su L’Express in cui Duverger spiega che con l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo il sistema dei partiti si sarebbe nazionalizzato e semplificato. Del resto la compatibilità è dimostrata dal fatto che colui al quale è imputata la rivoluzione più recente che avrebbe soppiantato la sua, Georges Vedel in particolare con la celebre espressione fatta propria dalla Corte “La legge esprime la volontà generale solo nel rispetto della Costituzione”, era stato suo alleato negli anni Cinquanta. Rilevante anche il debito che come italiani dobbiamo a Duverger. Eletto nel 1989 proprio in Italia al Parlamento europeo supportò da vicino la nascita del movimento referendario, contribuendo a smantellare soprattutto a sinistra, insieme ad Augusto Barbera e Gianfranco Pasquino, la vulgata assemblearista e proporzionalista che aveva perso la sua spinta propulsiva ma che restava ostinata nel ceto intellettuale. La forma di governo comunale e provinciale del 1993 e poi quella regionale nel 1999 furono letteralmente mutuate dal suo testo (uscito come opera collettiva del Club Jean Moulin nel 1961 L’Etat et le citoyen). Sul piano nazionale supportò il tentativo non riuscito di introdurre il collegio uninominale maggioritario in abbinamento o con una forma di legittimazione diretta del Premier, quale gli sembrava possibile al momento della vittoria dell’Ulivo, o con un sistema semi-presidenziale alla francese, invitando però a rifuggire da imitazioni contraddittorie quali quelle proposte durante la Bicamerale D’Alema che pretendevano di ridurre i poteri al Presidente eletto, creando così una divaricazione tra poteri e legittimazione. In fondo anche le evoluzioni costituzionali francesi di inizio anni 2000 (quinquennato e calendario elettorale) hanno dato ragione alla genialita’ sia di Duverger sia di Vedel. Com’e’ noto negli anni ’50 entrambi si erano battuti per due modelli analoghi, basati sul simul simul tra vertice dell’esecutivo con mandato quinquennale e deputati eletti lo stesso giorno in collegi uninominali maggioritari. Si differenziavano solo perché Duverger centrava il modello sul Premier e Vedel sul Presidente. Per realismo politico avevano poi approvato comunque il diverso modello varato nel 1962 col referendum di De Gaulle, sapendo che era l’unica via d’uscita rispetto alla possibile regressione verso un ritorno alle dinamiche della Quarta Repubblica. Quando più, però, dopo il 1997 la lunga coabitazione quinquennale si rivelo’ destabilizzante, Vedel fu in prima fila perché il quinquennato e il nuovo calendario elettorale di precedenza e quasi contestualità delle elezioni. Duverger invece non poté: era già da qualche tempo ostaggio della malattia che ha tenuto la sua bella mente prigioniera fino allo scorso 17 dicembre. Nei suoi scritti possiamo sempre trovare, al di là delle soluzioni puntuali, il senso di un diritto che per incidere davvero sulla realtà deve conoscerla adeguatamente. Nel desiderio di trovare le forme adeguate di una democrazia della decisione anziché dell’impotenza troviamo anche gli echi di una forma di esame di coscienza autocritico di molti giovani che all’inizio fecero l’errore di coltivare un’ambiguità verso i nuovi autoritarismi che sembrarono loro più efficaci del parlamentarismo pre-bellico, come quello della Terza Repubblica, come spiega bene Colliard a proposito di Duverger nel contributo sulla citata Revue. Un’autocritica che Duverger ha del resto spiegato bene, nonostante il suo carattere duro, in un suo testo quasi sconosciuto, quello nel volume degli atti del convegno dedicato al suo maestro spirituale, il domenicano Jean-Agustin Maydieu, che lo istradò verso la Resistenza e poi verso il quotidiano Le Monde. Per questi motivi, come giustamente ci invita a fare Dominique Rousseau, dobbiamo rileggere e ricordare Duverger.
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