recensione su "europa" del saggio Fabbrini sulla leadership

Così si governa un leader Un saggio di Fabbrini sul moderno Principe: necessario ma con dei paletti «Che uomo deve essere colui al quale è consentito di mettere le mani negli ingranaggi della storia?». A porsi questa domanda è Max Weber, nel 1918, ignaro dell’uomo che, di lì pochi anni, avrebbe sconvolto la storia del suo paese e del mondo. «Come controllare i leader al governo?». Sergio Fabbrini, oggi professore di Scienza politica e relazioni internazionali alla School of government dell’Università Luiss di Roma, riformula l’interrogativo del sociologo tedesco. Rispondendovi con un libro cristallino, Addomesticare il Principe. Perché i leader contano e come controllarli, uscito in questi giorni per Marsilio (pp. 208, euro 15); nel quale descrive e spiega, in maniera insieme analitica e storica, la natura dei leader in Europa e negli Stati Uniti. E i meccanismi che permettono la loro elezione e controllo. Oggi non esistono analoghi del Führer. Ma i leader hanno progressivamente riconquistato terreno, attraverso un processo di personalizzazione della politica sempre più spiccato. Con conseguenti allarmi sugli eccessi di leadership, anche nel nostro paese. A sinistra, per criticare Silvio Berlusconi e la sua gestione personalistica della politica, da contrastare rivendicando il primato di un partito “oligarchico”. A destra o al centro, per puntare il dito, spesso senza accorgersi della trave in casa propria, contro il populismo di leader antiberlusconiani come Di Pietro, Grillo e Vendola. Ma, secondo l’autore, attaccare oggi la leaderizzazione della politica è un esercizio antistorico. Col quale si rischia di buttar via il bambino con l’acqua sporca. I leader esistono, anzi saranno sempre più centrali, per vari motivi. Perché i partiti in declino non sono più in grado di rappresentare una società frammentata; perché la politica è sempre più internazionale; perché, soprattutto, la televisione è e sarà uno strumento sempre più cruciale della comunicazione politica. I rischi legati all’eccesso di popolarità sono conosciuti, e talvolta troppo enfatizzati. Meno noti invece gli aspetti positivi della personalizzazione della politica e della conseguente elezione diretta dei leader dal popolo, attraverso i meccanismi come le primarie. L’elezione popolare rompe gli equilibri conservativi dei partiti e crea le condizioni per mobilitare e rappresentare gruppi sociali esclusi. Il leader, inoltre, dovendosi rivolgere ad un elettorato più vasto di quello rappresentato dal proprio partito o coalizione, «è obbligato a perseguire strategie elettorali e politiche che tengano conto degli interessi di tutti». Infine, oltre a svolgere una funzione rappresentativa, il leader serve per arrivare ad una decisione quando si è in presenza di una pluralità differenziata, o di un conflitto, tra preferenze individuali (entrambi fisiologici in una società). Chi grida al decisionismo autoritario, insomma, non deve scordare che la decisione «è un bene collettivo di cui la democrazia ha bisogno per poter funzionare». Se è vero che l’ascesa dei leader ha messo spesso duramente alla prova gli equilibri dei governi parlamentari e semipresidenziali – si pensi alla costante tensione tra il populismo televisivo di Berlusconi e il nostro costituzionalismo liberale – la personalizzazione della politica non coincide, fortunatamente, con l’istituzionalizzazione di un governo personale. Pur se sottoposte ad un progressivo svuotamento, le nostre democrazie liberali possiedono ancora robuste difese. Quali? Gli organi di garanzia costituzionale, i partiti, l’informazione plurale e libera. Da questo punto di vista, appare chiara la permeabilità del sistema italiano a processi di personalizzazione populista, per contrastare i quali, secondo lo studioso, bisognerebbe irrobustire, e non indebolire, gli organi di garanzia, e insieme riformare i partiti, partendo dall’abolizione della scellerata legge elettorale attuale. Ma più di tutto sarebbe urgente sottoporre la proprietà del sistema televisivo ad una disciplina costituzionale che la frammenti radicalmente, in modo da garantire il pluralismo. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante, perché la telecrazia, oltre a rendere la politica sempre più simile ad un’attività imprenditoriale che può fare a meno delle organizzazioni di massa, ha reintrodotto in politica l’ideologia personalista basata sulla coppia amico/nemico («La televisione ha resuscitato Carl Schmitt»). C’è poi un’ulteriore difesa dal populismo che Fabbrini indica con originalità: la diffusione della meritocrazia e dell’eguaglianza delle opportunità, la cui debolezza favorisce l’ascesa di leader demagogici, che non hanno acquisito la loro posizione sulla base del talento, ma solo per via familiare e sociale. Oltre ad essere illuminante per chi voglia analizzare criticamente il berlusconismo come fenomeno politico, il libro di Fabbrini individua alcuni punti deboli della sinistra italiana. Alla quale lo studioso implicitamente ricorda sia che senza un leader non esiste il partito, sia che la capacità decisionale è un elemento fondamentale della politica, perché, semplicemente, «se gli individui che non decidono sono destinati a essere dominati da altri». Ma la politica non è solo soluzione di problemi. è anche costruzione di un sentimento comune. Ecco allora che i leader servono a generare identificazione, costruendo quella «narrazione che fornisce un senso di appartenenza ai cittadini», che porti a sintesi non solo gli interessi, ma anche i sentimenti contrastanti e conflittuali. Certo, attraverso la narrazione il leader «può stimolare i cittadini a “salire” al livello della complessità dei problemi collettivi, oppure può giustificare i cittadini nel “rimanere” al livello del particolarismo dei loro problemi»; nel primo caso educando e riformando, nel secondo assecondando e conservando. Tuttavia, «impedire l’ascesa del Principe è sbagliato, prima ancora che irrealistico. Addomesticarne l’ascesa è possibile, prima ancora che necessario». D’altronde, «i leader passano, la democrazia rimane. I leader possono sbagliare, la democrazia non può permettersi di farlo». Elisabetta Ambrosi

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