Quattro problemi del PD (e una risorsa non utilizzata)

Lo avevo scritto nel marzo 2021. Ma direi che vale ancora.


1. L’identità ideale.
Una delle debolezze della Repubblica di Weimar era rappresentata dal fatto di essere “una repubblica senza repubblicani”. Nessuno ci credeva. I socialisti lo esprimevano dicendo: “Republik? Das ist nicht viel, Sozialismus ist das Ziel!” (La Repubblica non è granché! Il socialismo è il fine!) In molti nel PD sembrano pensarla allo stesso modo. Il PD è uno strumento del momento, il nostro ideale è un altro. Ma chiamarsi “democratico” (anziché liberaldemocratico, socialdemocratico o cattolico-democratico) vuol dire pensare alla “democrazia” come “fine”, come “inveramento” degli ideali delle diverse tradizioni politiche. Lo scopo è il pieno sviluppo di ogni persona e la sua uguale possibilità di partecipazione alla vita politica, economica e sociale per determinare assieme la vita propria e della propria comunità. Le “politiche” (di un segno o dell’altro, a seconda del contesto) sono “strumenti” per la “realizzazione” di questo scopo, non sono “ideologie”. Talvolta, nella discussione tra “riformisti liberali” e “socialdemocratici” si ha l’impressione che la loro vera appartenenza ideale sia quella e che il PD sia solo uno strumento. Così non funziona. E, a dire il vero, è anche un’impostazione di cultura politica un po’ datata.
2. I luoghi del pensiero.
Lo scarso interesse per la dimensione “ideale” del PD si può misurare dalla progressiva desertificazione dei luoghi in cui un’identità ideale di un partito si costruisce: quotidiani, settimanali, riviste culturali, centri studi, scuole di formazione. La storia – breve – del PD è la storia della desertificazione dei luoghi del pensiero interni al partito. Ogni tanto si chiamano i cosiddetti intellettuali a raccolta per una giornata di ascolto su questo o quel tema: qualche minuto a testa, una specie di Festival, e poi tutti a casa. Per il resto ogni corrente ha i suoi luoghi e ogni rappresentante di partito che arriva al Governo o in Segreteria ha il suo giro di consiglieri. Ma quello che dovrebbe essere il partito erede dell’unità di “pensiero e azione”, degli “intellettuali organici” o dei “professorini” ha un rapporto solo occasionale e strumentale con il mondo della cultura.
3. Leadership e correntismo.
Nello Statuto del PD ci sono iscritti ed elettori, non ci sono mai i “soci”. Non c’è societas. C’è solo il raccogliersi dei seguaci attorno a un capo. Il corpo del partito si forma e si trasforma a seconda delle vicende congressuali. Certamente c’è uno zoccolo duro che rimane nei fatti, ma statutariamente l’idea è che il popolo del PD si formi non sulla base di relazioni orizzontali tra le persone che mettono i propri interessi, i propri valori e le speranze gli uni nelle mani degli altri, ma nell’individuazione di un capo e nell’obbedienza in cambio di protezione. Dai livelli locali al livello nazionale gli organi assembleari del PD si formano in questo modo: iscritti ed elettori si raccolgono attorno a una mozione incarnata da un leader che predispone le liste per la formazione della relativa assemblea sulla base dei consensi che riceverà. Le liste sono sempre rigorosamente bloccate perché il Partito Democratico ha qualche problema con la democrazia interna. Le preferenze sono odiate e messe al bando. Non sono la panacea, ma le liste bloccate sono la sacralizzazione del meccanismo della cooptazione dall’alto. Ognuno si costruisce dall’alto (da solo o più spesso con i capitribù che lo sostengono) la propria cerchia di fedeli. Solo affiliandosi a un capo si può entrare in un’assemblea di partito. Ciò vale per le assemblee regionali come per l’assemblea nazionale nonché per la Direzione nazionale.
È buffo che tutti i segretari del PD parlino male delle correnti quando è la struttura del partito che è organizzata in questo modo e la pratica politica, dalla nascita ai giorni nostri, è la esasperazione di questa logica: la vita e la morte di un consigliere comunale o regionale o di un parlamentare, la sua collocazione in una Commissione parlamentare piuttosto che in un’altra e ogni tipo di incarico nel partito o nel Governo passano attraverso il filtro di questo meccanismo. Questo produce non solo la dittatura delle correnti ma esalta anche la fedeltà al capo rispetto alla competenza. Ogni capo si costruisce il proprio cerchio magico di persone fedeli. Se i sostenitori di un leader dovessero infatti rompere la fedeltà o semplicemente pensare in modo sistematico con la propria testa, il leader rischierebbe di perdere il supporto necessario negli organi assembleari. Dentro questo modello si realizza una classe dirigente costituita da un gruppo ristretto di “professionisti”, tendenzialmente stabile, che usa la base (iscritti o elettori poco importa) come strumento di legittimazione e di mobilitazione per misurare le proprie forze e garantire la propria sopravvivenza e quella della cerchia più vicina. Il resto dei “rappresentanti” del PD nelle istituzioni sopravvive una o due legislature e poi viene macinato dalla ruota. Si tratta di una democrazia di competizione tra elites, la cui selezione è però del tutto legata all’abilità di sopravvivere all’interno di questo meccanismo piuttosto che alla loro effettiva capacità di rappresentare settori della società. Nella tradizione democratica la leadership cresce invece su di una fellowship tra persone libere, non sulla identificazione regressiva in un capo.
4. L’organizzazione.
Tutti invocano la collegialità e non un governo autocratico del partito. Ma una collegialità autentica richiede organi che la rendano possibile. I numeri dell’Assemblea Nazionale e della Direzione fanno sorridere. Un’assemblea nazionale non dovrebbe eccedere il numero dei parlamentari di una camera (ora ridotti a 400) e una vera direzione non dovrebbe superare le 40/60 persone. Ma la vera stortura sta nel fatto che gli organi del PD, a tutti i livelli, sono creati su meccanismi di cooptazione per cui non funzionano come reali luoghi di discussione e decisione. Le decisioni vengono prese altrove e ratificate dagli organi. Per i rappresentanti dei territori la partecipazione è frustrante in grado massimo. Tutto viene precotto al centro. Di qui un inevitabile, strutturale scontento della base e degli amministratori locali, che invece, spesso, hanno un peso politico fondato direttamente sul consenso tra i cittadini.
5. Il Codice Etico (una risorsa non utilizzata).
Nel Codice etico sono affrontati e ben impostati alcuni annosi problemi di correnti e di meritocrazia, di pari opportunità di genere, di incompatibilità e di comportamenti inopportuni da evitare. Insomma una lezione di stile, di un altro modo di far politica. Un ottimo testo. Basterebbe applicarlo.

Michele Nicoletti




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