Popcorn, barbari e Saragat, di Giorgio Armillei

Dal 5 dicembre 2016 l’opinione pubblica riformista si divide
in tre. Chi ha da subito collocato Lega e M5s dalla stessa parte, due facce del
medesimo alloggiamento populista. Due facce naturalmente con storie diverse ma che
condividono un nocciolo duro: severo fastidio per le istituzioni liberali,
chiusura sovranista anti UE e populismo macroeconomico. Chi ammette un
alloggiamento riformista del M5s da conseguirsi però progressivamente – non senza
echi morotei - per effetto di una terapia evolutiva delle responsabilità di governo.
Non solo dunque una terapia di recupero elettorale, fare qualcosa per riprendere
i voti finiti temporaneamente al M5s, ma una vera e propria terapia della
corresponsabilità: se il M5s governasse in un’alleanza con un solido anche se
minoritario presidio riformista le sue posizioni populiste finirebbero per
essere neutralizzate. Infine, chi in posizione forse minoritaria guarda invece
al fu centrodestra, in particolare alla Lega in ragione del suo insediamento
elettorale nelle aree a più alta crescita economica, questa volta per effetto
di un ragionamento indiziario. Se la Lega è forte dove si fa una gran parte del
PIL italiano vuol dire che ha dentro di sé tracce affidabili di cultura di
governo riformatrice. Dal che la ricetta: sospendere il giudizio su Salvini,
sottolinearne la differenza con il M5s e provare a riportare la Lega nel campo
dei riformatori.
Tre strategie stilizzate in tre formule. La strategia del
popcorn, i populisti hanno vinto le elezioni e quindi tocca a loro governare.
La strategia del romanizziamo i barbari, meglio un governo M5s PD che un
governo M5s Lega. E infine la strategia della saragatizzazione: il PD
riformista è minoranza, conviene sostenere il fu centrodestra e attendere tempi
migliori per il ristabilimento di un assetto bipolare. Sempre ammesso che il fu
centrodestra abbia in animo di godere dell’appoggio del PD per la formazione di
un governo. Popcorn, barbari e Saragat.
Con tutto il rispetto (in modo particolare per quest’ultimo)
le etichette tradiscono una qualche debolezza delle ricette. Benché chi scrive
sia convinto che il polo nazionalpopulista avesse l’onere di governare avendo raggiunto
la maggioranza parlamentare programmaticamente più omogenea, l’Italia e l’Unione
stanno pagando un prezzo pesante dopo un anno di governo. E questo non è certo
un risultato di cui essere soddisfatti se per l’azione politica si assume l’obbligo
dell’etica della responsabilità e non l’olimpica coerenza dell’etica della convinzione,
al netto della debolezza della distinzione weberiana. È questa constatazione di
fatto che dovrebbe spingere almeno per un po' a mettere da parte le spumeggianti
scomuniche e a porsi la domanda cruciale: come impedire che la sbandata
populista faccia deragliare il paese in modo irreversibile?
La dichiarazione di Giorgetti sui minibot introduce un fatto
nuovo. La definitiva impossibilità di collocare quantomeno pezzi della
leadership leghista nell’alloggiamento riformatore. Giorgetti infatti iscrive definitivamente
al partito del populismo macroeconomico il pezzo di Lega che si suppone lui rappresenti,
qualsiasi sia la ragione della sua dichiarazione. Debito pubblico e vincoli esterni
non contano: le politiche macroeconomiche possono ignorarli. Lega e M5s sono definitivamente
sovrapponibili, ogni velo è caduto. Una pietra tombale non solo sulle strategie
di saragatizzazione ma su ogni dubbio circa la coesistenza in capo alla Lega di
una straordinaria combinazione - per quanto momentanea - tra populismo
nazionalista dell’élite e riformismo degli interessi dell’elettorato del triangolo
europeizzato dell’Italia, Milano – Treviso – Bologna. Ammesso che questa sia la
fotografia di quell’elettorato: se non altro l’impianto spartitorio di quota
100 dovrebbe aver già insinuato più di un dubbio.
Non è la prima volta che il giudizio sulla Lega anima la
discussione dell’opinione pubblica non leghista, specie nel mondo cattolico. Quasi
al termine dell’era berlusconiana di governo, appena dopo il grande lavoro
delle settimane sociali dei cattolici italiani di Reggio Calabria e della loro
Agenda per l’Italia, in tempi di Lega “maroniana” di governo, Luca Diotallevi
scriveva della necessità di non demonizzare la Lega e soprattutto di
considerarla un fenomeno interno e non esterno al cattolicesimo italiano (L’ultima chance, Rubbettino, 2011, p.83). Dopo quasi un
decennio si può dire che Salvini e Giorgetti abbiano risolto la prima questione:
le élite leghiste sono irrimediabilmente populiste, non c’è più nulla da
demonizzare, il quadro si è semplificato, la Lega è un partito
nazionalpopulista senza crepe. Fine della storia. Il secondo punto resta invece
apertissimo, come abbiamo visto nelle ultime settimane di campagna elettorale. Per
dirne una, ad esempio, il voto cattolico nazionalpopulista non è per niente un
paradosso rispetto al successo mediatico di Papa Francesco. Semmai è un
paradosso rispetto alla dottrina sociale della Chiesa e alla storia del
cattolicesimo politico italiano. Ma quanto entrambi abbiano rilevanza per l’esperienza
di fede cristiana oggi è anch’esso un fatto accertato: quasi nulla.
Nel fare i conti con la Lega e con il centrodestra, l’opinione
pubblica riformista e i cattolici italiani - pur in presenza di una ormai
acquisita irrilevanza della partecipazione religiosa come determinante del voto
politico - devono fare i conti con una seconda novità. La scomparsa del
riferimento elettorale egemonico nel centrodestra, di Berlusconi e di Forza
Italia. In modo analogo a quanto avvenuto in Francia con LR e in Gran Bretagna
con i Tory surclassati nelle elezioni europee dal Brexit Party, non esiste un’offerta
politica antipopulista e quindi liberale e riformatrici ascrivibile al campo
dell’ex centrodestra. Macron, i Verdi, i Libdem hanno fatto da aspiratore dell’elettorato
liberale, con provenienza multipla da destra come da sinistra. Il segnale è
piuttosto chiaro, per quanto in GB il fenomeno sia inquinato dalla dinamica
Brexit: la polarizzazione dominante è quella tra nazionalpopulisti e liberali
europeisti. Tutto il resto è secondario: non che sia scomparso, è secondario.
Sostenitori del popcorn, della romanizzazione dei barbari e saragattiani
devono quindi rispondere a una domanda preliminare per poi capire come
raggiungere l’obiettivo indicato sopra, e cioè innanzi tutto evitare che il
paese deragli. E la domanda è una sola: come mai in Italia non esiste l’aspiratore
liberale? Come mai in Italia non solo il PD presenta capacità di attrazione
minima su quell’elettorato ma addirittura una parte di quell’elettorato pur di
non defezionare e rifugiarsi nell'astensione finisce per votare i partiti
populisti? E forse venuto il momento che i liberali si organizzino da soli?
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