Politics and policy nella crisi di governo, di Giorgio Armillei
Da sempre tattica e contenuti sono del tutto intercambiabili nelle democrazie liberali. E non perché i politici siano poco affidabili. Al contrario, la misura della loro affidabilità sta nel consenso liberamente espresso dagli elettori. Ecco perché i programmi si scrivono per vincere le elezioni. E la vittoria nelle elezioni non serve per attuare i programmi. Lo scettro è in mano all’elettore: i contenuti seguono.
Mai come nel parlamentarismo proporzionalizzato, quello che vediamo in azione in questa crisi di governo grazie al no al referendum del 4 dicembre 2016, l’intreccio tra tattica e contenuti è così iperbolicamente fluido. I secondi sono fatti e disfatti in funzione della prima. E la prima ha il breve orizzonte della sopravvivenza. Gli elettori in un sistema di questo tipo non scompaiono certo ma entrano in scena dopo, molto dopo. O se si vuole entrano in scena all’inizio, per dare le carte e distribuire i pesi. Ma di lì in poi diventano spettatori.
Questa e altre intrecciate ragioni sono alla radice dello strano balletto in corso nel PD a proposito della posizione sull’apertura leghista della crisi e sulla sua gestione. Il PD zingarettiano, da sempre contrario (i contenuti) a logiche da premierato per cui se cade un governo si torna al voto e sono gli elettori a decidere, ha all’inizio assunto una posizione esattamente di questo tipo, facendo sponda a Salvini. E guardandosi bene dal dare sponda al M5s, al contrario alleato naturale del PD per Zingaretti. In realtà l’obiettivo (la tattica) era un altro, in un certo senso simmetrico a quello di Salvini. Passare all’incasso, non certo vincendo le elezioni (impossibile) quanto piazzandosi solidamente al secondo posto. Non solo: piazzandosi al secondo posto avrebbe voluto dire liberarsi dell’incubo renziano, mettere una distanza di 10 punti tra il PD e il M5s e assumere la leadership dell’alternativa di sinistra a Salvini. Insomma in un colpo solo generare un effetto Brexit, da una parte il nazionalpopulismo dall’altra il corbynismo, e desertificare con l’aiuto di Salvini l’area liberale, a destra come a sinistra.
Dall’altra parte il PD renziano, non solo da sempre teoricamente avversario delle manovre di palazzo (l’Italicum le avrebbe rese effettivamente quasi impossibili) ma sostenitore della politica del popcorn - i populisti leghisti e cinquestelle hanno vinto le elezioni: i populisti governino – si scopre improvvisamente parlamentarista convinto. Niente elezioni dunque (i contenuti) e ricerca di un’intesa purchessia con il M5s (basta popcorn) in nome dell’emergenza di finanza pubblica e dell’effetto recessivo delle clausole IVA. In realtà l’obiettivo (la tattica) è un altro: sfuggire al “left revenge” di Zingaretti, spaccare il fronte populista e dimostrare che senza la componente liberale non c’è alternativa al populismo salviniano. E al momento giusto staccare la spina al nuovo governo.
Il primo round è vinto da Renzi. Per il momento non si vota: il “left revenge” deve aspettare. Non solo, e qui la vittoria tattica è evidente, Salvini resta in mezzo al guado: non può tornare in maggioranza con il M5s, non può andare alle elezioni per incassare il dividendo elettorale di questi 12 mesi di assalto al bacino elettorale populista. Si voterà prima o poi, certo che si voterà. Ma il momentum salviniano resta al palo.
Il rovesciamento tra contenuti e tattica si scarica ora nel complicato gioco della gestione della crisi di governo. Ancora una volta gli intrecci vanno sciolti per tentare di capire qualcosa. L’abisso tra renziani del PD e M5s (contenuti) dovrebbe portare i primi a porre severe condizioni per la formazione di una maggioranza e di un governo. Inutile fare l’elenco, dalla giustizia al jobs act. Dall’altra parte la contiguità (contenuti) tra PD zingarettiano e M5s (l’album di famiglia) dovrebbe smussare ogni asperità programmatica: si pensi a quante volte Zingaretti si è lanciato nel sottolineare i punti di convergenza con il M5s e al “laboratorio Lazio” con il quale il suo PD governa quella Regione.
Ma naturalmente (la tattica) si sta giocando il secondo tempo della partita “left revenge”: Zingaretti alza la posta per costringere il M5s a dire no (la questione Conte bis ne è un esempio) e poter dunque andare al voto avendo così aggirato la mossa di Renzi. Salvo (never say never) rimettere in gioco una qualche alleanza last minute tra Di Maio (terrorizzato da ogni scenario che non sia la continuazione con altri mezzi del governo gialloverde) e Salvini che a parole resta interessato al voto ma con il momentum azzoppato, la sberla parlamentare e i dubbi di molti tra i suoi non avrebbe difficoltà a ripensarci. Le continue offerte al M5s lo dimostrano. Renzi deve portare a casa a tutti i costi la nuova maggioranza, nella quale disporrebbe di un consistente potere di coalizione, per scongiurare la resa dei conti zingarettiana e restare al centro del gioco. Tuttavia non può farlo intruppandosi in un’alleanza programmatica, non può farlo mettendo all’angolo le politiche fallimentari del M5s (quelle condivise per altro dalla Lega fino alla fine, con esclusione del balletto sulla TAV), non può farlo esponendosi in prima persona. Può farlo giocando su nomi e posizioni chiave, accodandosi senza farlo troppo vedere alle manovre del Quirinale i cui obiettivi - riportare nel quadro di legittimazione europea il governo italiano, allineandolo alla maggioranza Van der Leyen che al momento include il M5s, anche se in posizione irrilevante e neutralizzabile, ma esclude nettamente la Lega e il gruppo del PE al quale la Lega aderisce insieme al RN di Marine Le Pen - per un tratto del percorso coincidono con i suoi. Quanto a Forza Italia spetta a Berlusconi decidere se uscire o no dall’angolo, un po' come sta capitando ai Tories che sono per il remain.
È su questo che si risolverà la partita della crisi. Il peso del Quirinale del quale non si può parlare ma che si può largamente misurare. È la Repubblica parlamentare del 4 dicembre 2016. Gli italiani l’hanno fortemente voluta, come i britannici hanno voluto la Brexit.
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