Pietro De Marco sul libro di Luca Diotallevi: ricevo e volentieri pubblico
Pietro De Marco Un libro e una congiuntura degni di riflessione e azione. Con-sensi e dissensi con Luca Diotallevi. I L’ultima chance di Luca Diotallevi, un libro breve ma molto denso, è lo sviluppo ‘politico’ della riflessione di una delle nostre migliori intelligenze (cattoliche e sociologiche), e di un amico. Formato alla ricerca nel versatile mondo del CENSIS, ma anche robusta testa teorica, Diotallevi integra così il rigoroso saggio del 2010 (Una alternativa alla laicità, Rubbettino) dedicato al modello del religious freedom americano come oltrepassamento della laïcité europea (continentale). L’ultima chance sviluppa una diagnosi della inevitabile involuzione del welfare state italiano e del sistema politico con cui il welfare è concresciuto, da un lato, e della concomitante latenza politica cattolica, negli ultimi decenni. Dico latenza, interpretando Diotallevi, perché alla esile presenza di cattolici in politica corrisponderebbe una consistenza - ad oggi non canalizzata - di risorse e di potenzialità. Esse debbono trasformarsi in decisiva ‘offerta politica’ nella competizione democratica futura. La transizione ad una condizione politica, effettiva e adeguata, non è senza condizioni. L’offerta politica presuppone un patrimonio di idee e schemi di analisi, vere élites politiche (portatrici di interessi interni alla forma propria del Politico), la capacità di ‘rappresentare’ interessi generali e locali, organizzazione specializzata. Per Diotallevi, che ritrova nelle (sole) tradizioni del ‘popolarismo’ sturziano e degasperiano una quota dei patrimonio idoneo, l’offerta nuova deve subentrare, ormai, anche a una “supplenza, da superare”: si tratta del ruolo guida della Chiesa (della CEI, ma anche dei pontefici) sulle condotte dei cattolici italiani, non solo nelle congiunture politiche ‘critiche’ (i grandi temi antropologici e bioetici). Supplenza spesso necessaria, per l’autore, che non ha inibito - contro l’opinione che questo sia avvenuto, diffusa nei laicati cattolici ‘critici’- la politicità cattolica, ma che non può bastare a quella svolta politica di cui la storia nazionale mostra di avere bisogno. La proposta di Diotallevi – molto ragionata – consiste, a questo punto, in una sorta di programma, conseguente. ‘Tredici tesi’ che hanno due fuochi essenziali. La questione del partito (1), che va posta, senza intaccare l’attuale pluralità di appartenenze politiche (non un nuovo ‘partito unico’), e di una cultura politica precisa, consapevole degli strumenti necessari, che sappia ‘stare sugli eventi’. E (2), quanto al programma anzi progetto, un popolarismo ‘neoriformista’. La nozione di ‘riformismo’ non deve essere equivocata; non siamo sulla scia di eredità socialistiche. Si tratta, anzi, di “alterare il panorama attuale dell’offerta politica” (quella, interpreto, che si è condannata all’immobilità e ha condotto l’intera classe politica e il paese, non irresponsabile, ad essere oggi sotto la tutela di un governo ‘tecnico’) e di proporre “le riforme di cui il paese ha bisogno”. Per Diotallevi il nuovo ‘riformismo’ avrà come obiettivo l’emancipazione del sistema sociale dallo ‘statalismo’ (nei suoi istituti e nelle sue sindromi) che ha determinato gli infiniti segmenti ‘protetti’ della società italiana, e la blocca. Sono assunti molto coraggiosi. Ad essi un pessimista opporrebbe che i soli cattolici capaci di interiorizzare e forse realizzare questa riforma sem-brano essere i membri del governo Monti. E spiego questo deliberato paradosso. Con Luca Diotallevi consento, anche fortemente, sui contenuti che egli chiama 'riformistici' e altrettanto dissento su diagnosi e prognosi cattoliche e politiche. Non credo, in particolare, alla portata del suo richiamo - non così marginale - ai 'liberi e forti' e simili, e neppure allo sturzismo (rianimato da un paio di decenni, e che ha già dato quello che poteva); ho spesso proposto una mia diagnosi sulla fine di quella grande stagione, dico quella della Azione Cattolica (fine, a partire dalla cd. 'scelta religiosa' generalizzata). Essendomi formato in AC negli anni Cinquanta penso che il collasso di quell'ordine, che era legato alla compatta Chiesa dei grandi pontefici del Novecento (preconciliare, per dire così), renda poco utile cercarvi oggi, in tutt’altra situazione ecclesiale e civile, analogie e modelli. Mi risolsi a non scrivere criticamente sulla Settimana Sociale di Reggio C. a cui Diotallevi e altri avevano tanto, e tanto bene, lavorato. Ma, aumentando le 'criticità', e urgendo i diversi progetti di presenza politica cattolica organizzata, non è bene ci si nasconda l'evidenza: a Reggio C. l'impianto dato da Diotallevi (col ricorso alle intelligenze dell’Università Cattolica) fu subìto dai partecipanti, per prescinderne (con maggiore o minore consapevolezza) nei gruppi di studio e nelle relazioni conclusive. E gli applausi veri andarono a Savagnone. Il Documento conclusivo, del febbraio 2011, non riesce a nascondere che le tesi proprie di Diotallevi (non so se di tutta la dirigenza) galleggiano - come segnali di una terra non ancora in vista o come resti di un naufragio ? - nel mare di un insopportabile ecclesialese, atto a dire tutto e il contrario di tutto, e nicchia verbale-emozionale molto rischiosa per la nostra serietà (politica e religiosa). E già a Verona, mutatis mutandis, era stato così in troppi interventi e sedi di lavoro. II Ma riprendiamo le fila. Anzitutto un chiarimento necessario. Vi sono almeno tre livelli di significato della parola ‘cattolici’ nel linguaggio storico-socio-politico, che fluttuano e si avvicendano scriteriatamente (cioè senza criteri minimamente rigorosi) nel discorso pubblico. a) i cattolici (comunemente indicati come tali) [oggi] presenti nella politica italiana istituzionale (Parlamento e partiti, talora istituzioni), e riconducibili alla matrice DC o alle organizzazioni cattoliche laicali; b) i cattolici detti politicamente silenti [non-a)], ma individuati in questi termini perché appartenenti alle diverse aree/aggregazioni/istituzioni ecclesiali o/e del ‘mondo cattolico’; c) i cattolici, designati così secondo l’accezione, e l’estensione – sia socio religiosa che pastorale – del complesso dei comuni credenti (cattolici), dei fedeli cattolici – di diversa intensità -, attivi o non attivi politicamente, ma senza le credenziali o i tratti individuanti di a) o b). Noto che a+b costituiscono quello che si chiama spesso il mondo cattolico, nella sovrapposizione (non abbastanza consapevole) di ‘mondo’ con ‘movimento’. Che questa delimitazione lasci fuori pressoché la totalità dei semplici credenti è un paradosso, non abbastanza ragionato. Sarebbe naturalmente semplice e più corretto adottare la convenzione per cui, quando si usa la parola cattolico, si intende la congiunzione a+b+c , una vera somma pur tenendo conto delle (limitate) sovrapposizioni. Il referente di cattolico sarebbe più prossimo a quella totalità che Poulat chiama ecclesiosfera. Ma questo uso è in contrasto sia con una certa (antica e recente, con mutati parametri) propensione ecclesiale a designare come ‘cattolici’ per eccellenza i laici ‘religiosamente qualificati’, sia con i linguaggi pubblici, per il bisogno che hanno di considerare solo i cattolici ideologicamente strutturati (quindi con scelte/posizioni prevedibili) e/o rilevanti per rappresentatività politica (ambienti, elettorati) o ecclesiastica. Un errore sociologico e politotologico – ed anche, a mio avviso, pastorale-religioso. A seconda del fluttuare della denotazione (di ciò cui ci si riferisce effettivamente anche se, sempre, non perspicuamente – si conta sempre un po’ sulla fuzziness o sulla equivocità semantica) il richiamo al ‘risveglio’ dei cattolici nella politica ha diversi profili. Per il gruppo a) dei cattolici attivi nello spazio pubblico-politico, si tratterà di divenire attori di primo piano; per il gruppo b) di divenire (tornare ad essere) parte di uno schieramento politico, ma ora come maggioranza o élite guida; c) per la categoria c), la popolazione cattolica, si tratterà di assumersi responsabilità civili e sociali, oltre il particulare, l’egoismo di gruppo o ceto ecc. Non è difficile ricondurre a queste diverse condizioni e progettualità una varietà di linguaggi esortativi, sia civili che religiosi-ecclesiali. Questi linguaggi esortativi rivolti ai ‘cattolici’ talora si rivolgono alla somma, talora alle parti; talora discernono, talora non discernono, o distinguono (né lo vo-gliono) tra, i diversi tipi di destinatari cattolici. Ai destinatari giungono allora messaggi o troppo generici o troppo specifici; o ripetitivi o, al contrario, estranei alla loro particolare posizione politico-sociale. E questo anche da parte degli studiosi e della riflessione politica avanzata. Con delle inconseguenze, comunicative e più che tali: A. messaggi generali quanto onerosi e in effetti inappropriati, poiché si equivoca tra (nuova) politica cattolica e forma storica della politica democratico-cristiana e ci si rivolge solo a gruppi minoritari legati ad una tradizione gli ex DC [= cattolici del tipo a)]; B. messaggi di uscita dalla latenza (vera o presunta, ‘percepita’) rivolti a destinatari ‘silenti’, fenomenologicamente e ideologicamente i più diversi [tipo b)], e che si collocano su piani pubblici diversi: come laicato nella politica, come laicato ecclesiale, come opinione pubblica civile e/o nella chiesa ecc. – poiché si fa coincidere (nuova) politica cattolica e ripresa della espressione civile e ideologica dei laicati (un tempo) militanti; C. messaggi di uscita dalla latenza alla maggioranza cattolica diversa dai gruppi a) e b), che - però - è già autonomamente operosa, attiva politicamente (nelle percentuali degli ultimi decenni), ma in forme e ambiti che i significati restrittivi di cattolico e l’abitudine di tutti ai contenitori classici dell’impegno politico cattolico, tendono a non vedere. Il risultato delle distorsioni quotidianamente rischiate, anche solo esaminato sul fronte di chi enuncia o genera messaggi, o se si preferisce sul fronte dell’offerta, è al massimo quello di una eccitazione. Ma vi sono elementi rilevanti dalla parte del complesso universo dei destinatari (sul lato della domanda). Alla difficoltà di denominazione e di strategia di comunicazione e indirizzo da parte dei diversi soggetti (dagli studiosi ai politici ai vescovi) corrisponde un quadro storico-socio-religioso che i sociologi della religione conoscono bene (anche se valutano spesso con occhi di altri anni o decenni: religiosità dinamica e ecclesiale=conciliare, religiosità deboli e statiche, convenzionali: salvo non capire perché attive devozioni e pellegrinaggi, perché ricerche di spiritualità, perche movimenti). Un ‘popolo cattolico’ (valutabile tra il 60% e l’80% e oltre della popolazione, a seconda della estensività dei criteri), dunque, inclusivo ma molto più esteso rispetto al mondo dei praticanti regolari, e differenziato per modelli di religiosità, di intensità di appartenenza, di conoscenza religiosa e consapevolezza/conformità etica, e naturaliter distribuito - poiché non è una élite ma una vera popolazione di diecine di milioni di individui (è insomma una cristianità) - in proporzioni diverse sulla totalità dei tipi di posizione-condotta politica. Non la secolarizzazione, come dato esogeno, ma (eventualmente) una serie di ‘risposte’ alla secolarizzazione, hanno trasformato una popolazione cattolica relativamente omogenea, ove il partito cristiano attingeva all’identità cattolica e la riproduceva come forme/effetti civili, in una costellazione di identità. Accessibili alla varietà e al mutamento di programmi e di occasioni materiali (e locali) di esercizio della politica. Non so né serve all’analisi deciderlo se questa situazione sia conforme all’ambìto (un tempo) pluralismo nelle scelte politiche dei credenti, quindi sia un valore, o non piuttosto una casuale e disordinata frammentazione. Certo è che orizzonti, linguaggi, memoria dei cattolici a) o b), ovvero a) + b), costruiti nell’unità prevalente di identità cattolica e scelta politica, non possono appartenere (come effetto passivo sia attivo del mutamento delle generazioni e del sistema politico) alla maggioranza cattolica [c)]. III Così i cattolici nel governo (di ieri o di oggi) non sono, per definizione, le nuove leve di una 'rinascita', ma una concentrazione del patrimonio cattolico esistente e concretamente operante da anni nel quadro sociale e politico subentrato alla ‘prima Repubblica’. Provengono dai cattolici nella accezione c). Uomini di qualità, dunque, che smentiscono la confusa diagnosi sulla ‘assenza’ e/o il ‘silenzio’ dei cattolici nella sfera pubblica (o nella chiesa, o in ambedue?), negli ultimi decenni. Come ho già scritto, le cose ripetute in questi giorni su un passato recente della Chiesa italiana, che avrebbe impedito quello che - mutata la presidenza della CEI - è diventato possibile, sono assurde. Senza discernimento né storico né politico. Infatti, questo patrimonio di competenze cattoliche (assieme ad altre) è convocato solo nella prospettiva di uno stato d’emergenza. La coscienza del Notfall, del caso di necessità o di emergenza, è stata portata alle sue conseguenze dalla stessa rappresentanza politica, per iniziativa del Presidente della Repubblica; se il mandato popolare produce una rappresentanza immobilizzata, chi governa deve essere temporaneamente emanci-pato, quantomeno immunizzato, dagli effetti perversi della corrispondenza eletti-elettori: questo è l’esecutivo Monti, nella sua legittimità e nei suoi limiti politici. I cattolici del governo Monti non sarebbero al governo senza l’emergenza e, di più, non sarebbero al governo se assomigliassero ai politici cattolici della Prima repubblica (e non si parla di De Gasperi). La razionalità emergenziale non confligge in sé con le idealità e i principi della dottrina sociale ma esige anzitutto capacità di diagnosi e decisione per l’oggi; che non si insegnano nelle ‘scuole di politica’, ma che alcuni cattolici possiedono, per altra via. Né hanno a che fare con Todi. Di todino, realisticamente (cioè con la capacità di entrare effettivamente in gioco), c'è solo il consenso della CEI e della Segreteria di Stato su Monti e su alcuni dei suoi ministri. Come il governo dei cattolici attorno a Monti non è il ritorno alla parola dei ‘cattolici adulti’, così non è un prodotto neo-democristiano; non potrebbe esserlo né per la procedura 'eccezionale' della sua formazione né per le sue finalità, opposte a quanto l'eredità sociale ed economica tardo-democristiana e consociativa ci hanno (non importa se involontariamente) lasciato. Non vi è relazione tra il mondo dei ‘religiosamente qualificati’ di movimenti e parrocchie, e la maggioranza dei cattolici comuni. Né in politica né nei bisogni religiosi. E niente è cambiato in uno/due anni nel nostro mondo, almeno sui 'grandi (?) numeri'; oggi, non ci si può illudere di aggregare col richiamo 'popolarista' un esteso mondo cattolico 'neo-riformista' su cui fare perno; tra l'altro, senza una forte critica retrospettiva della 'scelta religiosa' (formula che fu atta a legittimare un 'liberi tutti' nel campo delle opzioni politiche, a sinistra). Critica cui Luca si sottrae, per il suo legame con l'AC. I cattolici 'neoriformisti' non sono il pubblico militante di Reggio C., né la costellazione parrocchiale e dell’associazionismo laicale di antica derivazione. Sono potenzialmente nell'elettorato di centro e centrodestra (che è quello che conta, per i numeri) e forse qualcosa nel centrosinistra: penso al mondo attorno a Stefano Ceccanti): quel laicato 'comune' e molto difforme che, in prevalenza, chiede altre chiavi simboliche e altre formule politiche. Non sono tutte cose da dire di fronte a grossi pubblici; sono però da discutere, prima o poi. Anche l'uso del termine 'riformismo' non sembra fatto per chiarire; o è così tatticamente, per non allarmare e far credere che si vada verso A mentre si piega su B? Ma, allora, se di un santo 'machiavellismo' si tratta, è adeguato al fine? Potrebbe servire al modello pensato e proposto da Diotallevi incorporare criticamente i fatti e i criteri che mi sono permesso di sottolineare. Il programma che egli chiama ‘riformista’ ( o neoriformista) esiste. La base elettorale moderata e prevalentemente cattolica (nell’accezione c), disposta alla liquidazione del cinquantennio repubblicano ‘statalista’(sia pure democratico; nessuna delle personalità ‘sociali’ democristiane avrebbe allora, tra memoria del fascismo e presente comunista, accettato simpliciter la qualificazione di statalista), anche, sia pure nel travaglio e nelle re-sistenze indotti dalla recente disciplina del bilancio pubblico e delle nuove liberalizzazioni. Dei politici cattolici (nel senso di personalità capaci di governo) anche, emergenti ma anche preesistenti alla congiuntura Monti, seppure non configurabili come quadri e organizzazioni. Bisogna, però, accorgersi di tutto questo, discernerlo nell’impasto inedito della nostra comunità politica, e non rinviare alla costruzione o educazione di elettorati e quadri secondo modelli ideali. Potrà avvenire dopo. Un’ultima osservazione, per ora. ‘La CEI non basta’ scrive Diotallevi. Ma non è superflua, nella sfera pubblica politica italiana. La costellazione conflittuale delle modalità cattoliche (nella congiunzione a+b+c) pubbliche di esistenza e azione, religiosa e politica, dopo il 1993-94 non poteva che essere guidata dalla lucidità di sguardo di un uomo di chiesa. Non supplenza contingente, ma ritorno esplicito ad una funzione della gerarchia, necessaria e sempre praticata a partire dal consolidamento dello stato liberale (comunque ‘laico’ continentale). La costruzione politica che Diotallevi ipotizza non può ignorare questo fattore costitutivo: la prevalente estraneità se non ostilità dei laicati ‘qualificati’ - e prevalentemente ‘sociali’ - al programma ‘riformista’ fa sì che il riformismo cammini (o possa camminare) su una popolazione cattolica tanto differenziata quanto sono differenziati in Italia ceti, segmenti, culture (sub)regionali. Questa maggioranza cattolica spesso ai margini della vita delle parrocchie (anche per le responsabilità di una pastorale affettivo-comunitaristica o condotta per ristrette cerchie iper-‘conciliari’) esige oggi, e non meno domani, una alimentazione cattolica di principi e valori costante e omogenea, dal centro della ecclesiosfera.
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