Non so se la nostra è la Costituzione più bella del mondo, ma so che la politica italiana certamente non lo è, e che il Paese non si sente troppo bene

|Al di là di tutti gli argomenti tecnici e politici avanzati dal composito Fronte del No contro la riforma costituzionale che andrà al voto il prossimo 4 dicembre, l’obiezione più grave alla proposta governativa è che essa non è semplicemente sbagliata ma democraticamente illegittima, perché riduttiva degli strumenti di rappresentanza di cui l’assetto costituzionale attuale dota il popolo sovrano: questa riforma indebolirebbe la voce degli elettori invece di potenziarla, restringerebbe la democrazia invece di allargarla, perché decurterebbe drasticamente il pluralismo della rappresentanza politica, depotenziando il ruolo del Parlamento a favore di quello del Governo con l’abolizione del bicameralismo paritario congiuntamente ad una legge elettorale che penalizza duramente la rappresentanza della varietà degli orientamenti dell’elettorato polarizzandosi sulla costruzione di un vincitore pigliatutto, reso maggioritario non dal numero di voti effettivamente raccolti nelle urne ma dall’alchimia tecnica del premio di maggioranza. Quest’accusa è tanto grave e talmente autorevoli sono alcuni dei suoi esponenti che sarebbe irresponsabile ignorarla in nome di ragioni di mera opportunità politica: non si svende la democrazia sull’altare del vitello grasso della governabilità. La tenuta del governo Renzi, auspicata da alcuni, avversata da altri, non può essere l’argomento decisivo del voto. è importante perciò cercare di capire quali sono i modelli di democrazia effettivamente messi in gioco dal referendum per decidere con chiarezza quale scegliere.   Dall’alternativa all’alternanza   Quando i membri della Costituente approvarono la legge fondamentale della nuova Repubblica italiana, quasi settant’anni fa, l’Italia era uno Stato unitario di neppure cent’anni, appena uscito da una sciagurata dittatura che oltre ad aver privato della libertà il Paese per oltre due decenni aveva portato il mondo alla guerra alleandosi con il nazismo, una delle più ripugnanti barbarie della storia umana. La storia democratica dello Stato italiano era praticamente da scrivere quasi per intero e le condizioni per recuperare il tempo perduto e il male consumato e subito non erano le più facili, in un contesto internazionale di Guerra Fredda che divideva l’Europa in due blocchi ostili, e in un contesto interno segnato dalla presenza di un fortissimo Partito Comunista di rigida osservanza filosovietica (come le tristi vicende del 1956 avrebbero amaramente confermato), a cui sarebbero occorsi svariati decenni per consumare la rottura definitiva con il modello del socialismo reale e l’incondizionata accettazione delle regole democratiche dello Stato di diritto e della libertà di mercato. L’Italia era un Paese politicamente bloccato, nella polarizzazione tra l’atlantismo filooccidentale della Democrazia Cristiana, primo partito all’Assemblea Costituente ma minoritaria rispetto alla somma dei voti di Partito Socialista e Partito Comunista, e la collocazione filosovietica del PCI. L’alternanza tra Dc e Fronte Popolare - i Padri costituenti ne erano perfettamente consapevoli - non avrebbe significato quel fisiologico cambio di governo che è proprio dei sistemi democratici, ma un vero e proprio cambio di regime politico (presentandosi come l’alternativa tra il socialismo reale e una democrazia liberale ispirata ad un’economia sociale di mercato) e un riposizionamento sullo scacchiere internazionale dalle conseguenze profonde e largamente imprevedibili. In Italia, in altre parole, la posta elettorale in gioco tra le due forze politiche predominanti non era l’alternanza ma l’alternativa, e nell’incertezza del quadro evolutivo del voto popolare, la preoccupazione principale dei partiti rappresentati nell’Assemblea Costituente fu quella di costruire un sistema di rappresentanza in cui il ruolo del potere legislativo rispetto a quello esecutivo fosse esasperatamente dilatato, garantendo un contrappeso istituzionale oggettivo di robusto contenimento del potere del vincitore. Questo modello di corposa subordinazione del potere esecutivo a quello legislativo si impone infatti in situazioni in cui sussista una forte divaricazione tra le forze in campo rispetto ai principi di fondo su Stato, mercato e democrazia. Quanto meno questi sono condivisi, tanto più i soggetti politici sentono il bisogno di tutelare la propria mutua incompatibilità democratica attraverso un’architettura di puntuale limitazione del potere decisionale dell’esecutivo: meglio nessuna decisione che una decisione non negoziata, incompatibile con i valori della forza uscita sconfitta dalle elezioni. Il bicameralismo perfetto di un parlamentarismo perfetto (a regime proporzionale, con un Presidente della Repubblica privo di ogni potere esecutivo ed eletto dalle Camere, e un Governo soggetto a doppio voto di fiducia), era la soluzione che i due blocchi politici usciti dalla guerra davano al Paese per garantirsi mutuamente una ragionevole fetta di potere decisionale in condizioni di alternanza bloccata, in cui cioè la forbice politica (interna e internazionale) di alternatività dei contraenti implicava prevedibilmente l’esclusione di lungo termine di una delle due forze dal potere esecutivo. Nessuno può contestare la saggezza di questa scelta, che ha garantito al Paese decenni di pace, di crescita e di sana vita democratica malgrado l’atipicità di un quadro politico in cui lo stesso partito è rimasto ininterrottamente al Governo, con geografie variabili, ma senza soluzioni di continuità, per cinquant’anni, dal 1944 al 1994. La domanda che tuttavia dobbiamo porci a settant’anni dal varo della Costituzione è se siano ancora in piedi le condizioni storiche e politiche che fecero di questa netta subordinazione del potere esecutivo a quello legislativo la migliore soluzione per garantire la tenuta democratica del Paese. La risposta dei promotori della riforma è che la ragione di esistere di questo modello, un unicum nel mondo occidentale, è venuta meno nel momento in cui è cambiato il quadro interno ed esterno dell’Italia. Da un lato, la situazione di alternativa radicale è venuta a sdrammatizzarsi progressivamente in condizione di alternanza possibile con il crescente ancoraggio dell’Italia nel processo di integrazione europea e infine con la dissoluzione del blocco sovietico. Dall’altro, decenni di vita democratica hanno dato frutto, riducendo la divaricazione tra le forze politiche in campo e creando le condizioni concrete per l’alternanza: con la svolta del Partito comunista nell’89 e quella di Alleanza nazionale nel 1995 (entrata, con il ripudio del fascismo, nel cosiddetto arco costituzionale - non a caso sparito dal quel momento dal lessico della politica), lo scenario parlamentare italiano si è ‘normalizzato’. Il passaggio da un quadro politico di partiti di alternativa a quello di partiti di possibile alternanza riduce la necessità di tutelare l’inclusione delle forze politiche cui la propria incompatibilità democratica preclude l’accesso al potere esecutivo, attraverso il potere negoziale loro garantito da un potere legislativo predominante su quello esecutivo. La valutazione dei promotori della riforma è che questo modello, fisiologicamente consociativistico in condizioni di monopolio diacronico del potere esecutivo (nei cinquant’anni di ‘regime’ democristiano) è divenuto patologico in condizioni di alternanza, perché paralizza il potere esecutivo nello stress di un negoziato di politics e policies al di fuori della propria maggioranza e nella volatilità di maggioranze sempre di nuovo potenzialmente ridisegnate nell’alchimia dei giochi parlamentari (e sempre più, negli anni recenti, di singoli parlamentari), che comporta una riduzione sostanziale delle sue possibilità decisionali non controbilanciata (come nel quadro politico previsto dai Costituenti) dal monopolio diacronico del potere esecutivo da parte di una forza politica. Come non riconoscere che pregiudicare la capacità del potere esecutivo di espletare quella funzione cardine della rappresentanza democratica che è governare, subordinandolo al potere legislativo in misura sperequativa rispetto al quadro politico ha finito per trasformarsi, nel corso degli ultimi decenni, in un vulnus alla democrazia che ha danneggiato seriamente il Paese? Sostenere che la nostra è la Costituzione più bella del mondo, può essere anche retoricamente gratificante per il nostro atavico nazionalismo di figli della romanità, la culla del diritto, o per quella parte della cultura nazionale che assegna ai valori enunciati più importanza di quelli realizzati, ma questa di per sé innocente e in parte motivata rivendicazione di orgoglio diventa colpevole quando occulta il fatto che la nostra non è certamente la politica più bella del mondo. L’Italia che siede orgogliosa e sbruffona al tavolo de vari G7-G8-G20 è ai livelli più bassi tra le democrazie occidentali (fanalino di coda tra i Paesi dell’UE) nei ranking mondiali di corruzione, farraginosità burocratica, lentezza della giustizia, evasione fiscale e addirittura libertà di stampa; è un Paese funestato da un’infiltrazione sistematica dell’economia da parte della criminalità organizzata e di mafia e camorra - un problema che il sacrificio di decine di migliaia di italiani (tutti coloro che hanno pagato e continuano a pagare un prezzo altissimo alla difesa della legalità) non solo non ha risolto ma sembra quasi non avere intaccato. L’Italia che vuole tornare a giocare un ruolo guida in Europa è un Paese con un debito pubblico tra i peggiori dell’Unione e con prospettive praticamente nulle di uscirne, perché da dieci anni la crescita del PIL è stagnante, la produzione industriale è addirittura regredita, gli investimenti sono andati a picco; la disoccupazione ufficiale (soprattutto giovanile) è a livelli drammatici e diventa tragica se si contabilizza quella occupazione malata che è il precariato. E’ evidente che stiamo uscendo assai peggio di tutti gli altri (che contano qualcosa) dalla lunga crisi aperta dal tracollo finanziario del 2008. La certezza del diritto, che è uno dei capisaldi dello Stato democratico, non è fatta solo di ampiezza pluralistica della sua determinazione, ma di anche di tempestività, effettività ed efficacia della sua esecuzione, e da questo punto di vista la situazione italiana è, in confronto con altri Stati occidentali, semplicemente disastrosa. L’Italia è un Paese paralizzato da una concezione deformata della rappresentanza che pervade una buona parte della cultura politica italiana e che inquina la politica e la società italiana a tutti i livelli. Questa visione, che è uno dei legati più negativi e più duri a morire della Prima Repubblica, si basa sulla convinzione più o meno esplicita, più o meno consapevole, che il potere esecutivo non è espressione del potere rappresentativo del popolo elettore, che è posto in atto solamente dal potere legislativo. Unico titolare del potere di rappresentanza democratica, il potere legislativo (nella fattispecie il Parlamento nazionale) instaura un potere esecutivo che non ha una legittimità democratica autonoma, ma è democraticamente legittimato unicamente dal suo permanente adeguamento all’istanza di negoziazione, controllo, sanzione, approvazione e contenimento, rappresentata dal potere legislativo. Il parlamentarismo scade, in questa surrettizia avocazione dell’esclusività legislativa della rappresentanza, a patologica delegittimazione democratica del potere esecutivo (che per definizione è visto come prerogativa del ‘vincitore’, che essendo tendenzialmente pre-potente, accentratrice, prevaricatrice, va non solo controllata e giudicata, ma contenuta, rallentata, moderata, neutralizzata, attraverso una costante partecipazione negoziale). La proverbiale instabilità degli esecutivi italiani (la forbice tra durata delle legislature e durata dei governi, che non ha uguali nelle altre democrazie occidentali), la deriva degenerativa dei decreti legge senza giusta causa, l’anomalia di una partitocrazia che (nelle sue diverse configurazioni, comprese quelle nuove, a base digitale) occupa lo Stato per ‘controllarne’ la macchina amministrativa, sono solo alcune delle conseguenze di questa malattia degenerativa. In effetti la società italiana è ampiamente modellata a tutti i livelli da questo modello di parlamentarismo patologicamente ipertrofico, in cui meccanismi di spampanamento negoziale della decisione, di deresponsabilizzazione e depotenziamento dei ruoli in un consensualismo esasperato che si nutre di paralizzanti poteri incrociati di revoca, blocco e rinvio, pervadono tutte le sfere e i vari gradi dell’amministrazione pubblica, facendone un sistema esasperatamente burocratico, lento, iniquamente inefficiente quando non radicalmente corrotto (perché il consensualismo non selettivo scade rapidamente nel consociativsmo, e questo scade altrettanto rapidamente nella corruzione). Nessuno decide, dunque: quale buona notizia per i detentori del potere burocratico! La legittima reazione di una parte dell’opinione pubblica a questa piaga italiana ha prodotto negli ultimi due decenni la reazione populistica del berlusconismo, che cortocircuitava l’equazione su cui si era retta la cultura politica della Prima Repubblica rovesciandola: nella cultura politica della Seconda Repubblica leghista e berlusconiana l’espressione primaria della rappresentanza democratica diveniva il potere esecutivo, in una subordinazione del potere legislativo a suo ‘corollario’, che ha umiliato il Parlamento, ha scardinato la forma partito e prodotti danni tremendi all’assetto democratico del Paese. C’è chi crede che su tutto questo sia stata voltata la pagina, ma in realtà legato berlusconiano non si è dissolto con il tramonto dovuto a ragioni biologiche e giudiziarie del suo capofila storico. Il modello politico dei Cinque Stelle scardina il potere legislativo attraverso meccanismi decisionali esterni alla rappresentanza parlamentare e con essa sistematicamente conflittuali. Il salvinismo lo umilia attraverso l’accreditamento di una leadership personalistica di azzeramento della pluralità della rappresentanza. La posizione di queste forze sul referendum la dice lunga sul fatto che la piena salvaguardia del ruolo politico del Parlamento non passa oggi dal congelamento del suo assetto attuale ma da una sua adeguata riforma. Forse è arrivato il momento di superare gli squilibri della Prima e della Seconda Repubblica, approdando alla Terza Repubblica, fondandola sul riconoscimento del principio che i cittadini vanno a votare non solo per scegliere i propri rappresentanti legislativi ma un esecutivo che li governi. La rappresentanza politica non è espressa in primis né dal potere legislativo né da quello esecutivo ma dal combinato che esce dalla scelta delle urne. Subordinare radicalmente uno dei due poteri all’altro significa restringere e mortificare la rappresentanza e non rafforzarla. Significa privilegiare il ruolo degli eletti rispetto a quello degli elettori, dando alla classe politica (legislatrice o al governo) quel potere ‘iniquamente sproporzionato’ perché eccede la rappresentanza, che è una delle radici del discredito di cui soffre la politica agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica.   Dalla sovranità monistica alla sovranità mista: l’allargamento infra e sovra nazionale dei meccanismi di rappresentanza politica   C’è un secondo aspetto problematico nella critica che vede nell’abolizione del bicameralismo paritario una riduzione della rappresentanza democratica concessa ai cittadini, ed è il fatto che essa ignora nella sostanza la profonda evoluzione istituzionale che i meccanismi di rappresentanza democratica hanno conosciuto in questi ultimi decenni. Quando la carta costituzionale fu varata, settant’anni fa, l’elettorato italiano venne a fruire di una rappresentanza politica essenzialmente monistica, in particolare sotto il profilo del potere legislativo: con l’eccezione delle Regioni a statuto speciale (già dotate di propri organi legislativi) i cittadini italiani erano chiamati ad eleggere i propri rappresentanti in un Parlamento che costituiva l’unico organo di potere legislativo dello Stato italiano (sulla carta, alle Regioni erano concessi poteri che per molti anni restarono appunto solo sulla carta). Il bicameralismo mitigava un poco questa concentrazione, disarticolando parzialmente la matrice territoriale (per la diversa architettura dei collegi di Camera e Senato) e politica (con la differenza di età dei votanti e dei meccanismi di elezione dei candidati) del voto, e soprattutto instaurando il controllo incrociato delle due Camere sulla produzione delle leggi, ma il sistema di rappresentanza era saldamente indifferenziato entro una cornice rigida di sovranità nazional-statuale. Questo quadro monolitico di centralismo assoluto del processo legislativo si è tuttavia nel frattempo profondamente alterato con due innovazioni formidabili che si sono prodotte nel corso degli anni Settanta: con l’instaurazione dei Consigli Regionali nel 1970 e del Parlamento Europeo nel 1979 (che veniva ad integrare la svolta già costituita dalla creazione della Commissione Europea nel 1967) si è innescata una alterazione radicale del paradigma della rappresentanza che risponde ad un processo di dislocazione della sovranità politica che dal piano nazionale si ridistribuisce su quello infranazionale e sovranazionale, producendo una condizione di sovranità mista. I cittadini sono oggi chiamati ad esercitare il diritto di scelta democratica della propria rappresentanza politica (legislativa e esecutiva) non più unicamente a livello nazionale ma anche infranazionale e sovranazionale: il potere legislativo che ordina il funzionamento dello Stato italiano non è ormai esercitato unicamente dal Parlamento italiano ma anche dai Consigli regionali, seppur in misura limitata, e in misura determinante dal Parlamento e dal Consiglio dell’Unione Europea (che è il secondo organo legislativo dell’Unione, per quanto non di elezione diretta). La verità è che circa l’80 per cento dell’attività legislativa del Parlamento italiano è di ratifica e adeguamento della legislazione europea, per cui il contributo dei parlamentari italiani in termini di autonoma produzione legislativa (se si somma la sottrazione delle loro competenze su piano infra e sovranazionale) si aggira ormai intorno al 10 per cento di quello esercitato dal Parlamento entrato in funzione all’indomani del varo della Costituzione. Anche se sul piano qualitativo la rilevanza della legislazione emessa resta essenziale, interessando settori nevralgici come il regime fiscale, il ridimensionamento è evidente, rendendo necessario un riaggiustamento delle forme istituzionali alla realtà dei processi, che tenga conto di questa situazione di redistribuzione pluralistica della rappresentanza su livelli diversi di sovranità e di perdita di centralità oggettiva del Parlamento nazionale in quella rete complessa di sovranità mista in cui si articola ormai la democrazia di uno Stato integrato nell’Unione Europea. In questo quadro di trasformazione radicale, blindare artificialmente una centralità che non esiste più nei fatti è il peggiore dei servizi che si può rendere alla democrazia, occultando e negando i nuovi processi in cui essa si produce, invece di tentare di governarli efficacemente, adeguando le formule istituzionali alle nuove situazioni. Mantenere in piedi il bicameralismo perfetto in un Parlamento svuotato di gran parte della propria autonomia legislativa non significa affatto garantire la massima rappresentanza del pluralismo delle opinioni e il legittimo ruolo delle minoranze nella produzione delle leggi (che in gran parte vengono prodotte altrove), ma semplicemente rimuovere agli occhi dell’opinione pubblica la sua oggettiva perdita di una robusta quota di rappresentanza politica nella nuova distribuzione plurale della sovranità. In effetti, ad un Parlamento che dal punto di vista democratico è immensamente meno rappresentativo che in passato (perché meno rilevante in termini di produzione legislativa, non più centrale ed esclusivo), non viene restituita rappresentatività cementando il suo primato sul potere esecutivo centrale mantenendogli la doppia fiducia (perché è questo il nodo dell’abolizione del bicameralismo paritario), mentre in questo modo è sottratta rappresentatività all’elettore, decurtando sostanzialmente il suo potere di scegliere chi lo governa (in un meccanismo circolare di autoalimentazione in cui è rafforzato il potere dell’eletto e non quello dell’elettore). Il problema da risolvere per coloro cui stia a cuore la democrazia non è negare, arginare o addirittura invertire la perdita di rappresentanza degli organi legislativi ed esecutivi nazionali, ma articolare la loro funzione a quella degli organi legislativi infra- e sovranazionali, aumentando la trasparenza, l’efficacia e l’accountability del loro esercizio, riducendo le sovrapposizioni e determinando chiaramente le responsabilità. è quello che tenta di fare la riforma per quanto riguarda la redistribuzione di rappresentanza verso il basso, a livello infranazionale, affrontando due dei problemi più gravi dell’architettura istituzionale di decentramento (non solo amministrativo ma anche legislativo) introdotta in Italia dopo il 2000: quello del contenzioso (i conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni) e quello della mancanza di un efficace coordinamento legislativo, di un patto collaborativo, tra le Regioni. Il nuovo Articolo 70 propone una via d’uscita a queste due questioni, introducendo una razionalizzazione delle competenze legislative e facendo di una delle due Camere lo spazio istituzionale di coordinamento tra Regioni e tra Stato e Regioni. è questo un restringimento della rappresentatività democratica o un suo potenziamento? Resta aperta la questione della redistribuzione di rappresentanza verso l’alto, a livello sovranazionale. è evidente che anche su questo la posta in gioco nel referendum è quella della scelta tra due modelli diversi di democrazia: uno limpidamente europeista, a favore di una redistribuzione istituzionale di rappresentanza politica che traduca la dislocazione effettiva di sovranità in nuovi meccanismi democratici di rappresentanza della sovranità popolare, e un’altra implicitamente o esplicitamente antieuropeista, che identifica la sovranità popolare con la sovranità nazionale e punta a bloccare, se non addirittura invertire, il processo di redistribuzione della sovranità. All’insegna del motto “Nessuna democrazia al di fuori dello Stato nazionale”, l’estrema destra populista e la sinistra neonazionalista si incontrano in una retorica antieuropeista che sbandiera l’Europa dei popoli contro l’Europa di Bruxelles, e promette agli elettori di curare i sintomi dei problemi negando le cause. Al di là infatti delle scelte ideali che ci possono motivare a favore o contro il progetto politico di integrazione europea, ci sono dei fatti oggettivi che non possono essere ignorati. Innanzitutto che la perdita di quote crescenti di sovranità nazionale degli Stati è un fenomeno irreversibile, innescato dalla globalizzazione e dai processi di integrazione politica tra popoli come la UE e altre istituzioni internazionali (dal Tribunale Penale Internazionale alla Nato, dall’Onu al Consiglio d’Europa: tutti organi che, per meglio o peggio che funzionino, costituiscono ormai una oggettiva rete istituzionale di sovranità sovranazionale in cui si associano gli Stati). Che piaccia o no, gli Stati nazionali da soli non hanno più il potere di governare processi come il cambiamento climatico, le migrazioni, il terrorismo, la criminalità organizzata, i flussi di denaro dei mercati finanziari, l’impatto dell’innovazione tecnologica; dove è venuta meno la titolarità territoriale del fenomeno, è venuta meno l’esclusiva sovranità nazionale. L’unico modo perché questa situazione di dislocazione effettiva della sovranità non si traduca in perdita di sovranità popolare (ed è questo il secondo fatto che non può essere ignorato) è adeguare i meccanismi di rappresentanza democratica, aggiornandoli alla sovranità mista che questa novità rappresenta, producendo meccanismi efficienti di rappresentanza politica ai nuovi livelli in cui la sovranità è effettiva. Mantenendo intatto l’enorme potere di condizionamento attualmente detenuto del Parlamento italiano sull’esecutivo (attraverso la doppia fiducia) non si dà più potere agli elettori, ma unicamente agli eletti, senza aumentarne la rappresentatività perduta, e si distoglie l’opinione pubblica dalle battaglie vere su cui va giocata la guerra per la salvaguardia democratica della sovranità popolare nei tempi tumultuosi della globalizzazione, come l’impegno sacrosanto ed urgente a restringere la forbice di rappresentanza democratica costituita dalla natura bicefala del corpo legislativo dell’Unione, articolato tra un Parlamento eletto cui risponde il Commissario e un Consiglio non eletto. Il Brexit non ridarà agli inglesi l’impero perduto. L’Exit from Europe non ridarebbe ai popoli europei la fetta di sovranità perduta dai propri Stati nazionali, rendendoli, al contrario, molto più vulnerabili e deboli, interamente dipendenti dalle decisioni delle grandi potenze politiche ed economiche americana, cinese, russa indiana e giapponese. Chi ci rappresenterebbe democraticamente al loro tavolo, il giorno che l’Europa fosse un ricordo?

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