Non fuggire dal futuro, di Luciano Iannaccone

Cose buone e meno buone, provenienti dalle vicende politiche ed istituzionali, si alternano davanti ai nostri occhi: il governo ed il parlamento italiano hanno scelto nuovamente una linea europeista. Ma intanto l’Europa vive una fase di stallo, in cui non fanno progressi le necessarie scelte di radicamento unitario a proposito di bilancio comunitario, di difesa comune, di gestione dei confini europei per non parlare di un bilancio dell’area euro, fondamentale con altri strumenti per promuovere la crescita economica e la coesione sociale.

 

La manovra di bilancio 2020 rimuove il previsto aumento dell’iva, ma non l’inveterata abitudine di introdurre o reintrodurre qua e là tassazioni e balzelli. Va bene la rinnovata lotta all’evasione fiscale, dopo la pioggia di condoni del precedente governo patrocinata dal medesimo Presidente del Consiglio. Ma il carcere per i grande evasori con l’eventuale esproprio per sproporzione (nelle forme giuridicamente legittime) può giungere solo dopo sentenza passata in giudicato e quindi senza anticipati sequestri cautelativi, che hanno in passato distrutto imprese e proprietari poi assolti dal concorso in associazione mafiosa.

 

Fondamentale deve essere la concezione per cui il lavoro ed i redditi dei cittadini italiani non sono un ghiotto boccone con cui l’amministrazione pubblica si ristora, ma ciò su cui si fonda la nostra repubblica, come recita l’art.1 della Costituzione. Ed è non solo legittimo, ma doveroso pretendere che proprio per questo non ci sia né uso disinvolto (come con quota 100) né spreco inaccettabile (come sta da troppo tempo avvenendo con Alitalia) del pubblico denaro. E neppure sfascio della siderurgia italiana, come troppi 5 Stelle vorrebbero fare con l’Ilva.

 

Ma c’è una scelta colpevole e gravissima che riguarda tutto e tutti, siano istituzioni, politica, cittadini, manovra di bilancio: la rinuncia alla responsabilità ed alla cura del futuro. Giovanni Cominelli sul “SantAlessandro” ha pubblicato un importante contributo dal titolo:“Gli italiani vogliono un futuro?”. Le sue conclusioni sono giustamente negative, anche se non totalmente rassegnate. Le condivido totalmente nei loro contenuti antropologici e ne traggo un’applicazione pratica di enorme peso, che facciamo di tutto per nasconderci ed eludere: la deriva del debito pubblico italiano.

 

Un recentissimo ricalcolo retroattivo da parte di Eurostat ha corretto in aumento il debito italiano, a causa del peso degli interessi maturati, ma da riscuotere a scadenza, sui buoni fruttiferi postali e di altre passività, fra cui quella della Rete Ferroviaria italiana. Nel 2017, che aveva segnato come il 2016 una leggera diminuzione  percentuale del debito rispetto al 2015, sale( come i precedenti): dal 131.4 al 134,1. Mentre il 2018 aveva già visto il debito salire al 132,2 e lo vede ora definitivamente assestarsi al 134,8. Il 2019, con crescita nulla del Pil, bassa inflazione e deficit superiore al 2%,  vedrà il debito ben oltre il 135% del Pil. In Europa solo la Grecia ha un debito percentualmente superiore al nostro, mentre il Portogallo, che l’ha attualmente al 120% del Pil, l’ha fortemente ridotto con uno sforzo pluriennale. Tutti gli altri Stati europei hanno un debito inferiore al Pil.

 

Dal grafico sopra riportato (fonti: Roberto Artoni, Istat) vediamo che siamo ormai giunti ad un livello secondo soltanto a quello toccato dopo la prima guerra mondiale, che il ministro delle finanze Alberto De Stefani, a partire dal 1922 riuscì con grande decisione a ridimensionare drasticamente, grazie sia alla crescita economica che alla severa riduzione della spesa pubblica che al pareggio di bilancio.

L’altra positiva fase di riduzione del debito avvenne con il primo governo Prodi e consentì all’Italia l’approdo nell’euro. Portò il debito da oltre il 120% del Pil nei pressi del 100%, che fu poi raggiunto con il secondo governo Berlusconi. Poi la crisi finanziaria mondiale e la conseguente recessione italiana, con il debito che passò dal 102% del Pil nel 2008 al 132% nel 2014.

La situazione della finanza pubblica italiana non è “solida”, come spesso si dice con frase fatta. E’ molto debole sia per l’alto debito pubblico che per la persistenza di disavanzi di bilancio che per la sostanziale stagnazione della crescita dalla metà del 2018. Si è giovata (ma fino a quando?) dei più che tenui tassi di interesse del tanto vituperato euro, ma anche qui non possiamo menar vanto. Infatti oggi, con tassi negativi in Germania, in Francia ed in altri Paesi, il rendimento del decennale italiano ( dopo la fine del governo gialloverde, dell’antieurismo a prescindere e del conseguente altissimo spread) è basso come non mai, ma pur sempre superiore dello 0,80% a quello spagnolo, dell’1,10% a quello francese, dell’1,40% a quello tedesco (quotazioni di oggi, mentre scrivo). Significa che le nuove emissioni avvengono a tassi molto bassi, ma che sono comunque un multiplo rispetto a quelle correnti nei Paesi a noi vicini. Quanto risparmieremmo se solo ci portassimo ai livelli spagnoli ?  il costo del debito andrebbe progressivamente ben più che a dimezzarsi.

 

Solo una vera politica di riduzione progressiva ma sistematica del debito può risanare i conti pubblici italiani e difendere e promuovere l’economia ed i risparmi privati italiani. E restituire all’Italia una immagine degna ed ai giovani un futuro.   Proviamo a ragionarci, qui ed alla buona. Per non limitarci alla denuncia, due proposte: la prima sul debito pubblico, la seconda per creare le condizioni per una vera ripresa economica, senza la quale le armi sul debito sono spuntate.

La prima proposta potrebbe essere che, cominciando dalla legge di bilancio 2020, in ogni manovra siano programmaticamente stanziati dieci miliardi per ridurre il debito pubblico. Corrispondono oggi a poco più dello 0,4% del debito, da utilizzare per operarne la riduzione nel modo  tecnicamente più valido. A partire dal rimborso anticipato, quando contrattualmente previsto, delle emissioni più onerose. A questa riduzione preventiva, di grande rilievo pratico e comunicativo, si potrebbe sommare ogni anno a consuntivo una ulteriore riduzione percentuale del debito, se  l’incremento nominale del Pil (Pil reale  più inflazione) sarà significativamente superiore al deficit pubblico. Ma come promuovere, da parte pubblica e privata, l’incremento del Pil e del lavoro?

 

Soprattutto con una triplice operatività, che costituisce la seconda proposta:

A)     un comitato interministeriale di salute pubblica  che affronti subito, con strumenti straordinari, l’emergenza burocratica che paralizza gli investimenti pubblici e privati e l’economia italiana, deprimendo oltre ogni decenza produttività e diritti di chi lavora. E’ una piaga che va dagli uffici giudiziari alla proliferazione di regolamentazioni, complicazioni e contraddizioni che sono un oggettivo sabotaggio dell’economia nazionale.  Quando realizzare investimenti fermi da anni, iniziare un’attività e svolgerla nel rispetto delle leggi non sarà una “via crucis” le cose cambieranno con una rapidità inimmaginabile;

B)    Prendere finalmente sul serio il messaggio inequivocabile di tante associazioni di categoria: le aziende italiane cercano e non trovano sul mercato del lavoro circa un milione di lavoratori con formazione professionale specifica. Basta con l’inefficienza pubblica dove è in gioco l’avvenire dei giovani e dell’intero Paese: bisogna creare gli istituti superiori di formazione che occorrono con l’efficienza e l’urgenza necessarie. I ministri dell’istruzione e del lavoro producano rapidamente risultati o siano destituiti;

C)    Infine, ma non l’ultima cosa, governo e parlamenti non facciano retorica europeista, ma si impegnino per superare le difficoltà che si frappongono alla costruzione di una solida unità politica, economica e finanziaria dell’Europa (ed in particolare dell’area euro) che cerchi di iniziare con strette e leali sinergie tra i Paesi disponibili.

 

Aggredire il debito pubblico italiano significa non fuggire dal futuro, ma fronteggiarlo. Non raramente i nodi materiali hanno una valenza antropologica. Affrontarli e non fuggire può diventare per un paio di generazione l’occasione di conquistare diritti e di riscoprire doveri. Forse di ritrovare se stessi.

 

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