Non congeliamo le riforme
Nei passaggi tra crisi, transizione e consolidamento di un assetto delle istituzioni politiche ci sono pagine che a un certo punto vanno necessariamente chiuse. Non perché non si possano mantenere equilibri precari e assetti instabili: su questo non abbiamo certezze né in un senso né nell’altro. Le pagine vanno chiuse perché gli assetti precari e instabili producono costi e benefici che non sono distribuiti in modo casuale o senza significato tra attori politici, gruppi di interesse, interlocutori esterni alle istituzioni politiche stesse, ceti politici. Qualcuno ci guadagna – e sono pochi - qualcuno ci perde, e sono molti di più. E chi ci perde può coalizzarsi per cambiare la situazione ma ha bisogno di un “imprenditore politico” che aggreghi gli interessi dispersi e gli dia la forza sufficiente per chiudere quella pagina. La riforma costituzionale rappresenta questo imprenditore politico. Messa in questa luce la questione del sì e del no al referendum del 4 dicembre può essere letta anche oltre i dettagli del quesito. E così messa appare come un’ennesima replica della forse troppo stilizzata contrapposizione tra etica della convinzione ed etica della responsabilità. Non è difficile rintracciare nobili argomenti tra le ragioni del no, soprattutto ovviamente tra coloro che concordano nella diagnosi – e quindi anche per loro sarebbe necessario chiudere la pagina della transizione istituzionale – ma non con la terapia di questa. Nobili ragioni che si infrangono tuttavia a confronto con la storia istituzionale del paese: i molti che sopportano i costi dell’assetto attuale non possono aspettare ancora. Accantonando dunque per un momento la fascia di elettori convinti che rispetto all’attuale assetto non siano disponibili nella maniera più assoluta alternative adeguate e convincenti, il resto di ciò che si presenta come un no a questa riforma - anche se non alla riformabilità della Costituzione - finisce con l’incappare nella trappola degli effetti delle scelte. In altri termini il no dei perplessi è un no che non si fa carico, o se lo fa non porta sino in fondo le sue posizioni, degli effetti del no. Di questo no, non di un no astratto e normativo alle riforme possibili della Costituzione italiana ma di un no concreto applicato al qui ed oggi della storia istituzionale del paese. Un no che non è generativo di un assetto diverso della Costituzione in vigore ma che semplicemente lascia le cose come stanno: chi perde continua a perdere e chi vince continua a vincere. Un no che evoca con enfasi diversi e migliori scenari di cui non si conosce tuttavia né il come né soprattutto il quando. Lasciare le cose come stanno non significa formulare un giudizio di neutralità: significa farsi carico responsabilmente degli effetti del proprio no. E gli effetti sono quelli spiacevoli che gli stessi sostenitori di questo “tipo di no” intendono evitare: decisioni politiche lente, diffidenza degli investitori internazionali per l’incertezza dei contesti legislativi, processi decisionali disseminati di trappole a beneficio di piccoli gruppi di interesse, confusione nei rapporti tra stato e regioni. Abbiamo un esempio sotto gli occhi di tutti in questi giorni: la riforma Madia della pubblica amministrazione. Riformare i servizi pubblici locali e ridurre il perimetro delle aziende pubbliche regionali sono imprese quasi impossibili nell'attuale quadro costituzionale che richiede la ricerca di un consenso praticamente unanime dei governi regionali. Nel breve e nel medio periodo non è difficile immaginare che questo tipo di no spianerà la strada a un periodo di congelamento riformatore. A danno degli interessi e delle aspettative di tutti quei soggetti non organizzati che solo da decisioni veloci ed efficaci possono attendere un riequilibrio delle loro condizioni di partenza, una maggiore certezza dei propri diritti, una restaurata speranza di potercela fare. Calcolare con responsabilità gli effetti delle proprie scelte è tanto nobile quanto proclamare l’irrinunciabilità dei propri principi.
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