Non accontentarsi della pura sussistenza, di Giovanni Ferretti
Il Vangelo della V domenica di
Pasqua ci introduce a un’ulteriore comprensione di chi è Gesù Risorto per noi,
dopo quella della metafora del Buon Pastore che abbiamo meditato domenica
scorsa. La troviamo al centro del brano odierno del capitolo 14 di Giovanni,
ove Gesù si autodefinisce dicendo: “Io
sono la via, la verità e la vita”. Questa autodefinizione non si presta
all’immaginazione come quella di “Io sono il buon pastore”, che ha permesso a
tanti artisti di raffigurarla. Ma non per questo è meno profonda e incisiva,
come cercheremo di mettere in luce. Si compone infatti di metafore concettuali:
via, verità e vita, che oltre ad
avere un ampio uso biblico fanno parte del nostro vissuto quotidiano e sono
altamente evocative.
Il brano in cui si trova fa parte
dei “discorsi di addio” che Gesù rivolge ai suoi discepoli dopo l’ultima cena
(Gv 13, 33 – 17, 26). Nell’elaborazione che l’evangelista Giovanni propone di
questi discorsi, si riflette la comprensione dell’identità profonda di Gesù che
la comunità giovannea ha raggiunto alla luce della fede e dell’esperienza
post-pasquale. Essi ci danno quindi la possibilità di meglio conoscere e
gustare chi è veramente per noi Gesù Risorto, e di farne a nostra volta
un’esperienza personale vivificante.
Nel testo che oggi leggiamo, Gesù ha appena detto ai
discepoli, chiamandoli “figlioletti” (Gv 13, 33), che stava per andare ove essi
per ora non possono seguirlo. Al loro turbamento, per la prospettiva della
morte imminente che tali parole suggerivano, egli li rincuora: io sto per
ritornare al Padre, da cui sono venuto; questo è il senso della mia morte.
Quindi “non si turbi il vostro cuore”; io “vado a prepararvi un posto” nella
casa del Padre, dove vi sono “molte dimore”, cioè c’è posto per tutti. Poi
ritornerò, “perché dove sono io siate anche
voi”. Il presente “siate” lascia intendere, nel contesto del vangelo di
Giovanni, che Gesù risorto è presente con il suo Spirito nella comunità dei
discepoli già nell’oggi di questa vita, per introdurli a un’intimità con il
Padre simile alla sua, non solo dopo la morte ma fin d’ora. E difatti Gesù
aggiunge: “del luogo ove io vado, voi conoscete la via”.
A questo punto l’apostolo
Tommaso, anche in questo caso esempio della difficoltà dei discepoli e nostra a
comprendere veramente il mistero di Gesù, gli chiede: “Signore, non sappiamo
dove vai, come possiamo conoscere la via?”. E Gesù gli risponde con le parole
in cui si trova l’autodefinizione in
oggetto: “Gli disse Gesù: Io sono la via,
la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14, 6).
Dal contesto della frase,
risulta chiaramente che dei tre termini dell’autodefinizione il principale è la
via: Gesù è la via che conduce al Padre. Chi segue Gesù, credendo in lui, accogliendo e mettendo in pratica
i suoi insegnamenti, è in cammino verso il Padre, va nella direzione
giusta per essere in sintonia
con Dio,vive veramente da
figlio di Dio. Ed è interessante ricordare come secondo gli Atti degli Apostoli i primi cristiani
indicavano la dottrina di Gesù semplicemente con il termine “la Via” (At 9, 2;
18, 25s; 24, 22).
Gli altri due
termini, verità e vita, sarebbero da intendere come esplicitazioni del primo: “Io sono la via, perché sono la verità e
anche la vita” (Léon-Dufour). Gesù è, infatti, la “verità” del Padre, nel senso ce lo
riflette nella sua stessa persona, ne è il perfetto “esegeta” o interprete
vivente (Gv 1, 18, testo greco), è l’immagine perfetta del suo vero volto (2Cor
4,4; Col 1, 15). All’apostolo Filippo, che nel seguito del testo gli chiede:
“Signore mostraci il Padre e ci basta”, Gesù potrà quindi rispondere: “Chi vede
me, ha visto il Padre” (Gv 14, 9). Efficacemente è stato osservato (A. Maggi)
che i cristiani non dovrebbero tanto dire che “Gesù è come Dio”, quanto
piuttosto che “Dio è come Gesù”. Ovvero che noi, per fedeltà al Vangelo, non
dovremmo mai proiettare su Gesù una nostra idea di Dio, quanto piuttosto
imparare a conoscere sempre meglio chi è veramente Dio guardando alla persona
di Gesù, la verità svelata di Dio.
Gesù è, inoltre,
la vita del Padre, nel senso che ne
partecipa pienamente e con abbondanza ce la comunica fin d‘ora; come risulta
con chiarezza dal vangelo di Giovanni. Oltre all’espressione che abbiamo letto
a proposito del Buon Pastore: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano
in abbondanza” (Gv 10, 10), ci basti qui ricordare, dal discorso sul “pane di
vita”, il passo in cui Gesù dice: ”Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me
e io vivo mediante il Padre, così anche colui che mangia me vivrà mediante me”
(Gv 6, 57). In virtù della fede e della comunione di vita con Gesù,
simboleggiata dal “mangiare” la sua carne e dal “bere” il suo sangue, la stessa
vita di Dio ci viene donata, e noi nasciamo ogni volta nuovamente come suoi “figli”.
Dicevo che le tre metafore,
della via, della verità e della vita, fanno parte del nostro vissuto
quotidiano. In riferimento a tale vissuto, vorrei suggerire alcune riflessioni
quale aiuto a cogliere la grande portata esistenziale dell’autodefinizione di
Gesù che ci viene proposta.
La metafora della
via ci richiama la questione del
senso o direzione della nostra esistenza. Da dove veniamo? Dove stiamo
andando? Come orientarci perché la nostra vita abbia un senso? Che direzione
prendere? Verso quale meta protenderci? Questioni che sempre si ripropongono e
che se non trovano soluzione lasciano nell’incertezza, disorientati. La vita
perde gusto, ci disperde in tanti frammenti senza connessione, ci rinchiude
nell’immediato senza una prospettiva, un progetto in cui impegnare la nostra
libertà e creatività. Se invece troviamo il senso del nostro essere al mondo, scopriamo che siamo
ciascuno quella novità unica che lo rende più bello e più ricco, allora la vita
è gioia di vivere, è felicità.
Il Vangelo di
Gesù non ci dà delle indicazioni precise per fare le scelte concrete con cui ci
incamminiamo in una direzione o nell’altra nella professione, negliinteressi
culturali, nelle relazioni affettive, nello stato di vita o vocazione. Ma ci
offre quell’orientamento o direzione di fondo che tutte le può vivificare,
rendere belle, ricche di senso positivo. Ci dice, infatti, che il senso giusto
e buono della vita non è quello che va verso
noi stessi, ci concentra sul nostro io, ma quello che va verso gli altri, ci decentra sugli altri, e quindi verso il
mondo e verso Dio. “Il Figlio dell’uomo – ha detto di sé Gesù – non è venuto
per farsi servire ma per servire” (Mc 10, 45). Egli ha così capovolto
completamente l’essere stesso dell’uomo, il senso della sua vita; da vita che
pone sé al centro, subordinando a sé tutti gli altri, a vita che pone al centro
gli altri, vivendo per loro, essendoci per
loro.
Gesù si è pensato e ha vissuto
effettivamente come “esserci-per-gli-altri” e così ci ha indicato la via che
porta a Dio, ci fa fare l’esperienza di Dio. «L’ “esserci-per-gli- altri” di
Gesù è l’esperienza della trascendenza», ha osservato con acutezza Bonhoeffer.
Prendersi cura del prossimo, come tanti fanno in questi tempi di pandemia, con
generosità e dedizione ammirevole, anche impegnandosi per trovare delle cure
efficaci per guarire o prevenire dal contagio del virus, non è un “Vangelo
laico”, come ho letto ultimamente sul giornale La Stampa, ma il Vangelo
autentico di Gesù, quello che ci indica la via verso Dio, e può essere ben
compreso anche dai “laici”, come alta espressione di umanità. Essere consapevoli che
“vivere-per-gli altri” con generosità è possibile non solo in forme particolari
e talora eroiche di volontariato, ma nel concreto della propria attività
professionale o famigliare, costruendo con onestà e perizia ponti o case, coltivando
la terra, cuocendo il pane, facendo il medico, l’infermiere, l’insegnante ecc.,
... può dare alla propria vita senso e dignità, la coscienza che è qualcosa di
bello, di utile, di buono, farci scoprire con
stupore che in essa vi è un nucleo di eternità.
Quanto alla metafora della verità, mi limito a
osservare che senza verità non c’è libertà. “La verità vi farà liberi” (Gv 8,
32). Se non sappiamo come stanno le cose, quali sono i dati della situazione, i
valori in gioco, nessuna scelta consapevole e libera è possibile. Né
individualmente, né socialmente. Dalle scelte quotidiane più semplici, alle
scelte esistenziali, sociali e politiche più impegnative. Ben lo sperimentiamo
anche in questo tempo di pandemia, con le carenze e incertezze sulla verità della
situazione, i pareri contrastanti degli esperti, le difficili previsioni sul diffondersi del virus, le discussioni
sull’efficacia delle misure adottate.
Più in generale, sappiamo che le
cosiddette Fake News, le false
notizie create e diffuse consapevolmente o per ignoranza nei media, inquinano
la vita democratica, sono autentici virus infettivi delle menti e delle
relazioni. Cercare la verità con passione, diffonderla come missione, senza mai
imporla con la forza o la violenza fisica o verbale ma solo fidando sulla capacità che essa ha di farsi valere di per sé, per gli argomenti che la rendono
palese, ... è un grande dono al prossimo e al tempo stesso una “sacra liturgia”.
Se Cristo è “la verità”, ogni
servizio alla verità è un servizio a Cristo. Ogni verità ha in sé qualcosa di
sacro, ogni falsità qualcosa di diabolico. Ogni verità è in un certo senso
ispirata da Dio. Non per nulla San Tommaso, con profondità teologica, è giunto
a dire: Omne verum, a quocumque dicatur,
a Spiritu Sancto est, “ogni verità, da chiunque sia detta, deriva dallo
Spirito Santo”.
Quanto alla metafora della vita, il sapere che Cristo è la vita in persona può
essere un invito a riflettere su che cosa sia per noi la vita in pienezza, a
interrogarci se forse ci accontentiamo di vivere solo a livelli bassi o
accettiamo di esservi costretti.
Mi ha fatto pensare, in questi
giorni, un’affermazione del filosofo Giorgio Agamben, con cui non consento ma
che può offrire un prezioso spunto per riflettere. A suo avviso, accettando le
restrizioni delle libertà fondamentali imposte dai governi approfittando della
pandemia, abbiamo accettato, per paura di morire, di essere ridotti a “nuda
vita”, ovvero alla pura sussistenza biologica, animale. La tesi di Agamben non
mi convince. Anzitutto perché non abbiamo cessato, anche in questa nostra
scalcagnata democrazia, di parlare liberamente e di vivere le relazioni con i
vari mezzi a disposizione. E poi, certamente non si sono ridotti a “nuda vita”
quanti si spendono per gli altri, con dedizione
di vera carità, negli ospedali, nel volontariato, nelle famiglie, nel campo
della sicurezza, dell’approvvigionamento, della vita politica ecc. Una vita che
si dona agli altri, anche solo impegnandosi a non infettarli, non è “nuda vita”
ma vita già pervasa dall’agape di Dio.
La provocazione di Agamben può
però essere uno spunto per riflettere su come la vita umana vera non possa
accontentarsi della pura sussistenza, appiattirsi sul semplice tirare a
campare. “Fatti non fosti a viver come bruti, ma per seguir virtude e
conoscenza”, leggiamo nella celebre terzina dantesca del canto ventiseiesimo
dell’Inferno. La vera vita umana è esercizio di intelligenza, è libertà
inventiva e creativa, è capacità di bellezza e di bontà, di relazioni di
reciproca donazione libera e gratuita, di contemplazione della natura, di gusto
di buona musica, di gioco e di festa. Non è “nuda vita” soprattutto perché sa
rischiare la vita per la giustizia, la verità, la libertà, fino a “dare la
propria vita” per amore, come ha fatto Cristo, “la Vita” stessa di Dio apparsa
in mezzo a noi. Che in Cristo ci sia dato di partecipare alla stessa vita di
Dio non dovrebbe mai cessare di stupirci, di aprirci alla contemplazione,
all’adorazione, al ringraziamento.
Tanto più se tale vita non ci porta fuori della nostra esistenza quotidiana, ma
tutta lo permea e lo vivifica. Vivere la vita di Dio è per noi, concretamente,
vivere in pienezza la nostra umanità.
Commenti (0)