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Partiti e culture politiche: rileggere un profetico Martinet Gilles Martinet, che da giovane era stato comunista e che aveva abbandonato quel partito per il socialismo riformista già a fine anni ’30, dopo i primi processi staliniani, era stato attivo nella Resistenza e aveva aiutato poi Mitterrand a strutturare il nuovo Partito Socialista. Da quest’ultimo, dopo la vittoria nelle presidenziali del 1981, era stato nominato ambasciatore a Roma, anche perché sua moglie, figlia di Bruno Buozzi, era italiana. Nel 1990, verso la fine del nostro primo sistema dei partiti, Martinet pubblica il libro “Les italiens”, uscito in Francia per Grasset e in Italia per Laterza. Nel libro si descrivono tutte le aporie delle tre principali culture riformiste e, soprattutto, le loro contraddizioni in quel sistema dei partiti che appare datato. Martinet esamina quella quantitativamente più consistente e descrive con preoccupazione l’incapacità del Pci di assumere in modo esplicito, con una cesura chiara, un’identità riformista non conciliabile coi richiami al comunismo fino alla caduta del muro di Berlino. Un limite che, a catena, genera o, quanto meno, giustifica le ulteriori anomalie. Quella del riformismo socialista sotto Craxi che, dopo un’eredità contraddittoria e litigiosa ben ricostruita da Martinet, cerca di combinare la prospettiva di un’alternativa socialista (rinviata a dopo il ridimensionamento del Pci) con un presente di legame con la Dc, giocando di sponda con le sue componenti più conservatrici. E, infine, quella della Democrazia Cristiana, dove convivono in modo innaturale, sotto il manto dell’unità politica dei cattolici che resiste a causa dell’egemonia comunista a sinistra, sia la cultura cattolico democratica (identificata da Martinet in Pietro Scoppola sul versante civile e nel cardinale Silvestrini sul versante ecclesiale) sia culture cattolico-conservatrici e intransigenti. In altri termini i riformismi esistono, ma finché rimangono ingabbiati in quel sistema dei partiti, restano tutti minoritari e poco efficaci. E’ impossibile per Martinet immaginare un riformismo veramente vincente e capace di segnare un ciclo politico senza che essi si riuniscano, compreso con tutta la sua forza unificante (lo scrive un dirigente socialista francese dichiaratamente laico) quello del cattolicesimo democratico., separato da quello conservatore. Al punto che il capitolo sul cardinale Silvestrini (per inciso: uno dei grandi elettori di Bergoglio già nel penultimo conclave) si intitola “il cardinale di una futura alternanza”, mentre quello su Pietro Scoppola richiama il tema della ricerca di nuove mediazioni dopo l’esaurimento della cultura del progetto degli anni ’30, della “nuova cristianità democratica”. Il tema che è al cuore del volume di metà anni ’80 “la nuova cristianità perduta”, dove Scoppola sostiene che il cattolicesimo democratico può e deve reinventarsi ma non in modo autosufficiente, rapportandosi alle altre culture riformiste, ma non con le scorciatoie massimaliste o valoriali con cui si erano verificati alcuni intrecci degli anni ’70, per l’intreccio tra post-Concilio e contestazione, intrecci che avevano perso il senso delle necessarie mediazioni tra principi e realtà. Se leggiamo Martinet capiamo quindi che, al di là di una vicenda o di una persona specifica, non c’è nessun ritorno della Democrazia Cristiana nel protagonismo di alcuni cattolici democratici nel Pd, ma esattamente il verificarsi di quello che lui sosteneva, che cioè quando si fosse avuta una presenza significativa del cattolicesimo democratico in una confluenza di riformismi rompendo lo schema dell’unità politica si sarebbe avuta la possibilità di un forte ciclo riformatore. C’è quindi più coerenza oggi tra culture politiche (oggi strettamente intrecciate, almeno nel centrosinistra) e partiti che non nella cosiddetta Prima Repubblica. Si affermano dei democratici, che a volte sono anche cattolici, col consenso di tutti, ma non è un portato statico del passato: è un merito di chi nel passato ha saputo anticipare il futuro. Non a caso coloro che volevano impedire l’evoluzione del sistema negli anni ’70 e ’80 li aveva individuati come obiettivi privilegiati: la mattina in cui nel 1988 fu ucciso Roberto Ruffilli la prima immediata reazione di Nilde Jotti a Maria Eletta Martini fu la frase “ma uccidono sempre gli stessi”. Anche quella frase ci dice molto su quello che è successo in questo Paese.

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