Lo spirito di una nuova alleanza di Giuseppe Tognon - Ricordo di Pietro Scoppola
Lo spirito di una nuova alleanza
Quattro anni fa, il 25 ottobre 2007, si spegneva Pietro Scoppola, lo storico che
più di ogni altro ci ha insegnato a leggere la storia italiana al di fuori degli
schemi ideologici e senza rinunciare ad una profonda ispirazione cristiana, di
pietà per la fatica di vivere e di fedeltà alla coscienza e all'impegno per il bene
comune e per la chiesa. L'aver scelto, dopo una brillante carriera di funzionario
parlamentare, la vita del professore universitario, rappresentò il modo di
coniugare il rigore intellettuale con l'impegno educativo e con il bisogno di
aiutare le generazioni più giovani a non crescere da sole, come era stato per la
sua, compressa tra il fascismo, la guerra e una rinascita tumultuosa e spesso
volgare.
Rievocare la sua figura è quasi d'obbligo oggi, quando si fa ancora una volta un
gran discutere sui cattolici e la politica nazionale. La cosa più impressionante è
vedere che coloro che oggi pontificano sono gli stessi con i quali Scoppola ha
discusso e talvolta garbatamente polemizzato, eletti ora a maestri anche da
coloro che qualche decennio fa invece si battevano, come molta parte del
mondo sindacale e associativo, per l'autonomia e la distinzione tra i piani
dell'agire umano. Ad esempio, da Galli della Loggia lo separava la visione del
ruolo della fede nella società, che per Scoppola non poteva essere un
ingombrante fattore individuale o collettivo, da contenere in schemi prepolitici o
da assumere sotto categorie tutte intellettuali, ma una risorsa comune per la
demitizzazione della politica, in primis delle estremizzazioni liberali o socialiste e
una specifica qualità della coscienza civile italiana che, prima di essere
l'esaltazione dell'individuo moderno, è stata l'aspirazione secolare ad un futuro
di pace e di solidarietà, da povera gente, popolare.
In un articolo del 21 aprile 1995 obiettava a Galli della Loggia una malposta
ostinazione a voler costringere tutti i cattolici e tutto ciò che era o sapeva di
cattolico in un unico campo e comunque schiavi di un "destino" all'unità e alla
sottomissione che non era più legittimo. Senza nulla togliere ai meriti storici
della DC e della Chiesa, il problema per Scoppola non era quello dell'unità
politica ma della battaglia contro l'uso politico della religione, soprattutto da
parte di una destra che egli aveva fin da subito visto prigioniera di quella
mentalità clericale che nella storia italiana scandisce i momenti di maggior crisi
civile. Scriveva nel 1995: "Non è così dall'altra parte (del centrosinistra): qui vi è
un processo di maturazione culturale e politica ben più profondo: il rapporto dei
veri eredi del Partito popolare (così bisogna chiamarli) con le forze laiche di
centro e con la sinistra democratica si colloca sul terreno politico e non
comporta alcun uso strumentale del cattolicesimo: il confronto è stato e resta
lealmente aperto su questioni che toccano la coscienza religiosa come quelle
che riguardano i temi della vita". Peccava forse allora di un eccesso di fiducia.
Scoppola non è stato uno storico della modernità: anche se si è spinto indietro
nello studio delle radici settecentesche ed ottocentesche del cattolicesimo
liberale, ha sempre preferito interpretare la contemporaneità e in ogni suo gesto,
anche quelli politici più di parte, ha difeso il ruolo delle istituzioni, civili e
religiose, che egli leggeva in chiave progressiva, come strumenti necessari alla
convivenza umana nel momento dell'affermarsi di Poteri nuovi, spesso oscuri e
inumani. Ma dello storico di lungo periodo aveva le caratteristiche migliori, in
particolare la capacità di analizzare i fatti e i personaggi alla luce di ciò che la
fase storica chiedeva e non soltanto sulla base delle loro intenzioni o delle
relazioni di fatto. La sua non era una storia di avvenimenti o di buone intenzioni.
Espresse la sensibilità per ciò che andava interpretato e non solo narrato con
l'impegno a studiare le forme e le fragilità della democrazia italiana e, sul piano
storiografico, con lo studio della figura di De Gasperi, la cui riscoperta negli anni
Settanta, quando ai suoi stessi seguaci sembrava sepolta, assunse quasi il
carattere di una profezia.
Dai tentativi perseguiti dalle gerarchie cattoliche di guidare il popolo dei credenti
esercitando un ruolo di supplenza politica, lo separava l'idea che le crisi dei
partiti erano prima di tutto crisi di crescita e un' opportunità offerta a politici
intelligenti per offrire un'efficace sintesi storica, dove la vitalità della democrazia
- con il risveglio del mondo e la fine dei blocchi - e la forza e la solidità di una
Chiesa conciliare potessero incontrarsi intorno ad una visione non clericale e
non statalista della società. Rileggendo i suoi scritti, appare problematico anche
quanto un suo brillante allievo, Agostino Giovagnoli, ha recentemente espresso
(sul
Corriere della Sera
del 14 ottobre) sulla concordanza tra le tesi di Scoppola
e del card. Ruini, davanti all'evidente crisi della Democrazia cristiana. Certo,
c'era in comune la consapevolezza che la crisi di un sistema politico era solo
parte di una crisi più generale del modello di società, ma da un'analisi in parte
convergente discendevano soluzioni molto diverse. Scoppola, che non fu mai
fazioso, non esitò, nel marzo del 2001, a riconoscersi nel grande Cardinale che
affermava "che la Chiesa e quindi il clero e le varie realtà ed espressioni
ecclesiali non devono e non intendono coinvolgersi con alcuna scelta di
schieramento e di partito", ma dichiarava altresì che proprio ascoltando quelle
nobili parole veniva voglia di "aggiungere che non è credibile la difesa gridata
dei valori cristiani nella accettazione acritica del mercato globale; che non vale
la promessa di concessioni alla sensibilità cattolica su temi delicati come quelli
della tutela della vita o del riconoscimento dei diritti della scuola privata, quando
sia formulata nel quadro di programmi politici e di posizioni culturali
radicalmente incoerenti rispetto alla visione personalista e solidale che discende
dalla tradizione cristiana". Non si trattava semplicemente di un caso della ben
nota dialettica tra diversi modi di intendere il ruolo della chiesa nel mondo, ma di
una divergenza sui bisogni della società italiana, che per Scoppola richiedeva
maggiore e non minore autonomia.
Fu anche tra i primi ad accorgersi che la lunga transizione dalla Repubblica dei
grandi partiti ad una Repubblica dei cittadini era mal gestita e soprattutto ricca di
incognite. Fu tra i primi a dichiarare che la difesa del pluralismo politico non
poteva essere presa a pretesto per l'emarginazione della tradizione cattolica in
politica anche perché la storia del movimento cattolico in Europa dimostrava che
senza rappresentanza politica si indeboliva la Chiesa e il suo ruolo benefico di
esperta di umanità. Egli denunciava invece l'ambiguità di scambiare l'analisi
sociologica sul fatto che i cattolici italiani erano ormai una minoranza con la
tentazione di ricondurli ad una condizione di minorità e quindi a mondo informe
e manipolabile. Al contrario, l'esperienza della fine dell'egemonia cattolica in
politica e tutto ciò che era costato in termini di sofferenza e di difficoltà, come
aveva insegnato la vicenda di Sturzo e di De Gasperi, appariva a Scoppola non
il segno di una minorità ma di una maturità che non aveva eguali nella storia
nazionale, sia perché non poteva essere messa sullo stesso piano della fine
dell'egemonia comunista e laica, sia perché non riguardava soltanto le
appartenenze politiche ma il modo stesso di incarnare lo spirituale nelle forme
moderne e materialiste del potere. Poneva il problema dell'unità dei cattolici
come
experimentum crucis della loro capacità di costruire alleanze su più livelli,dentro e fuori i meccanismi della rappresentanza, e di non offrire il fianco a facili
strumentalizzazioni. Nella seconda prefazione alla sua intervista su
La democrazia dei cristiani
cittadini impegnati è diventato un compito difficile che mette a dura prova non
solo la pazienza di cercare il bene comune, ma il modo stesso di vivere
l'esperienza di fede continuamente sottoposta alla revisione razionale del
confronto democratico e dell'opinabilità delle soluzioni. Ma proprio la difficoltà
con cui i credenti vivono la dialettica tra le ragioni della fede e il principio
democratico della maggioranza rappresenta per ogni democrazia un potente
antidoto al
politique d'abord , alla presunzione cioè che la politica possa fare(2005) scriveva: "Esprimere oggi una fede cometutto e da sola". E aggiungeva: "In politica, come nella chiesa, è il popolo che in
molte circostanze trasforma i capi, se essi hanno l'umiltà di ascoltare. Non vi è
per fortuna nessuna forma partito, nessuna ragione di partito, che determini la
superiorità di questo o di quel comportamento individuale o collettivo: la sfera
dell'etica e dei comportamenti precede e non segue il progetto politico e deve
ispirare le leggi e le regole. Precede ogni volontà generale. E non è però
pensabile che agli inizi di questo secolo si possa pretendere di far nascere
dall'alto un nuovo soggetto politico trascurando proprio quello che è stato il
limite intrinseco delle precedenti forme partito e cioè la limitata democrazia
interna, e il basso grado di effettiva partecipazione dei cittadini e tanto più degli
stessi iscritti alle scelte decisive".
La sua analisi sulla classe dirigente di formazione cattolica, anziché fermarsi
alla riproposizione edificante del vecchio e pur sempre importante principio della
laicità, riproponeva il problema del "tradimento" delle attese e delle sfide. Senza
mezze misure, criticando anche i migliori, anche Prodi e molti altri amici cari.
Posto che non era possibile immaginare per il nostro paese un approdo tardivo
al modello europeo di una presenza cattolica in una socialdemocrazia che era
stata per decenni contestata dal partito comunista, che l'ha accettata senza
convinzione come approdo obbligato della sua crisi, era giusto considerare che
"un tale approdo non avrebbe potuto dar vita che ad una forza debole sulla base
di una rappresentazione ormai superata degli assetti europei, nel migliore dei
casi ad una forma debole e confusa di socialdemocrazia, senza storia, che non
potrebbe rappresentare minimamente il punto di confluenza di quelle forze e di
quelle tradizioni politiche così vitali e particolari come sono state quelle
dell'Italia". Senza mettere in discussione la legittimità di molti politici cattolici di
spendersi per un partito socialdemocratico e riformista, Scoppola aveva visto
subito, fin dal fallimento della prima esperienza dell'Ulivo, che questa scelta non
poteva rappresentare la via maestra per la conquista del consenso di ampi
settori di elettorato moderato e soprattutto per la riconquista "oggi quanto mai
necessaria della Chiesa gerarchica a posizioni meno legate a suggestioni
conservatrici".
Scoppola non ha avuto il tempo per partecipare a una fase nuova anche perché
non si è ancora aperta: aveva chiaro che l'approdo non avrebbe potuto essere il
Partito di Centro, troppo vecchio come formula, senza pari in Europa, troppo
rigido per esprimere le potenzialità di una coscienza cristiana che si interroga
sul cambiamento di un modello di sviluppo, troppo piccolo per pretendere di
interpretare la ricchezza della stessa Dottrina sociale della chiesa, infine troppo
debole rispetto ad una domanda sempre più forte di governabilità. Il sentimento
politico dei cattolici italiani, scriveva "è alla ricerca di proposte politiche che
contengano del valore aggiunto" rispetto alle tradizionali coalizioni tattiche e che
parlino di istruzione, di benessere, di solidarietà, di vita e di morte, di
secolarizzazione non come se ne parlava quando erano ancora problemi
materiali, ma come sono oggi, problemi spirituali che si ripresentano ingigantiti
davanti al fallimento di una società di ricchi e di benpensanti che non è
nemmeno più in grado di gestirli come problemi materiali. Indicava nella
capacità dell'esperienza cristiana di costruire "alleanze" e di fare "alleanza" tra
bisogni tradizionali e risposte innovative una risorsa importante a livello
planetario, anche se non si faceva illusioni sulla possibilità che essa venisse
valorizzata senza la trasformazione dei soggetti politici e delle istituzioni
internazionali.
Alla luce delle sue considerazioni, si può dire che il vero problema politico
all'ordine del giorno in Italia non è quello della natura cattolica di un soggetto
politico (garantita come e da chi?), ma di capire se i partiti che esistono sono
ancora vitali o sono già precocemente morti o degenerati. Se così fosse,
sorgono spontanee alcune domande: su che cosa fare leva per rinnovarli senza
sguarnire le istituzioni e mettere in pericolo la nostra democrazia? Una fase
costituente può ripartire da questi partiti o ha bisogno di qualche cosa di
diverso? Ma per partire, essa ha davvero bisogno, come molti sostengono, di
condizioni eccezionali, di "tragedie", o non può invece fare affidamento sulla
domanda di partecipazione costruttiva che sale da molte minoranze attive,
anche cattoliche? Una semplice modifica della legge elettorale può avere
questo effetto costituente o non finisce, per quanto necessaria almeno per
decenza, per alimentare ancora una volta l'illusione che il parlamento sia
l'ombelico del mondo? Quali alleanze politiche sono oggi le più indicate per
attraversare la crisi europea? Perché se fosse necessario unirsi lo si dovrebbe
fare in nome di un principio di solidarietà che supera le necessità tattiche di una
decantazione del quadro politico nazionale dominato dal postberlusconismo.
L'emergenza non dovrebbe annullare le differenze, ma valorizzare le positività
dovunque sono. La chiesa italiana, ascoltando anche i non credenti e
interpretando le comunità e i loro amministratori, può esporsi senza un progetto
chiaro? Non può limitarsi ai richiami alla compostezza e alla moralità personali,
a maggior ragione se sono, come appare, ignorati dai più, ma nemmeno può
lasciare intravedere una nuova chiamata all'impegno politico dei cattolici senza
indicare il come e il quando.
In queste ultime settimane il cardinale Bagnasco si è pronunciato e un passo
importante è stato fatto. Tuttavia la scelta dei messaggi e dei tempi in politica è
decisiva quanto la credibilità dei soggetti: posto che la Chiesa italiana è ancora
credibile ed autorevole, è possibile immaginare che una volta maturata la
necessità di un cambiamento profondo di direzione essa si ponga con chiarezza
dalla parte del nuovo che avanza senza attardarsi a pretendere risposte
impossibili da parte dei troppi che anche nelle istituzioni non hanno il coraggio di
fare ciò che è necessario e giusto?
Giuseppe Tognon
Giuseppe Tognon
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