L'illusione del ritorno. Come perdere con Zingaretti, di Giorgio Armillei

La sinistra corbyniana (e pikettyana) è all’opera per dare
un significato al voto in Sardegna. Lo schema è semplice. Perché il PD (e
attorno al PD il centrosinistra) ha recuperato terreno in questi due turni
elettorali rispetto al tonfo del 4 marzo 2018? Per due ragioni. La prima: è
tornato ai temi cari alla sinistra, quelli ignorati nella stagione renziana, recuperando
così il rapporto con gli elettori M5s e con gli astensionisti di sinistra delusi.
La seconda: è tornato alla strategia della coalizione larga che mette insieme
di tutto, dal centro alla sinistra estrema che, anche in questo caso, produce
il ritorno dei delusi.
Le cose stanno effettivamente così? Cominciamo con
qualche dato. Due sembrano i macrofenomeni elettorali portatori di novità: lo
smottamento in più direzioni dell’elettorato M5s e il saldo dei movimenti
(ingresso/uscita) dall’area dell’astensionismo. Il partito più forte dei
migranti M5s è in realtà quello transitato sotto le insegne del candidato della
Lega, ennesima conferma dell’intercambiabilità del voto per l’elettore della
rabbia e del risentimento. Un elettore che sempre di più sembra avere a
disposizione tre strade: il populismo di rito leghista, quello di rito M5s e l’astensione.
Un elettore che si regola di conseguenza a seconda dell’offerta, del contesto del voto,
dell’umore locale o di quello della politica nazionale. Dopo il partito dei transitati nella Lega si colloca
il partito di migranti M5s astensionisti, quelli che entrano nell’area dell’astensione
per una serie di ragioni, non ultima la mancanza di un candidato antisistema
convincente. Questi primi due partiti di M5s migranti fanno più o meno il 60%
di quell’elettorato. Il resto si divide tra gli irriducibili M5s e l’area del
cosiddetto ritorno, l’area dei pentiti come la chiama l’Istituto Cattaneo. Cosiddetto
ritorno perché in verità non è ben chiaro chi è tornato dove, l’elettore M5s al
centrosinistra o il PD alle posizioni dell’elettore M5s.
Il partito astensionista si riduce rispetto alle
elezioni regionali precedenti, anche se non conosciamo il peso dei flussi in
uscita e in entrata. In contesti come quello cagliaritano ha sicuramente
funzionato un effetto trascinamento del candidato del centrosinistra. Più in
generale l’attenzione mediatica nazionale ha dato una spinta alla
partecipazione al voto che comunque resta tra le più basse della storia
elettorale della Sardegna, oltre 12 punti sotto le ultime elezioni parlamentari, anche se più di 10 punti sopra le ultime elezioni europee. Tutta questa grande capacità
di recupero dall’area dell’astensione, al netto dell’intensità dei flussi in
entrata e in uscita, non sembra aver dunque prodotto effetti vistosi: 1 elettore su
2 non è andato a votare. Tanto che il candidato della Lega arruola tra i suoi
elettori una quantità di ex astensionisti superiore a quella del candidato di
centrosinistra. Corbyn e Piketty non servono dunque a riprendersi fette
significative di elettorato M5s – che pure inseguono. E non servono a riacciuffare
astensionisti intermittenti che in maggioranza votano Lega.
Lo schema corbyniano non sembra dunque reggere ad un’analisi
più approfondita del voto, almeno non nei termini che gli spin doctor
zingarettiani divulgano: la via non è per niente quella giusta. Cosa c’è dunque
di sbagliato nello schema e cosa non funziona in vista di una convincente
ripresa del polo riformista? Zingaretti si muove ritenendo ancora del tutto
solida e influente la frattura tra destra e sinistra. E dentro questo schema
pratica il modello del governo di salvezza nazionale. Per cui tutti dentro a
sinistra, qualsiasi cosa dicano i diversi pezzi della sinistra. Perché la
sinistra deve fare la sinistra. E alleanza di ferro con il centro, perché a
prendere gli elettori di centro ci deve pensare il centro, altrimenti la
sinistra si contamina e perde la sua identità.
Ma lo schema fa acqua da tutte le parti. Innanzi
tutto, non c’è per niente una frattura destra sinistra gerarchicamente superiore
alle altre. Zingaretti ha detto no al CETA come Salvini e come Di Maio. Nessuno
saprebbe a chi e a cosa associare la parola ‘sinistra’ in quest’ultima frase: probabilmente
è CETA l’unica parola di sinistra di quest’ultima frase. Se l’obiettivo del PD
di Zingaretti è battere il neoliberismo – in Italia tutt’altro che egemone
nelle policy anche se additato come il responsabile del successo populista - è del
tutto naturale che Salvini (come Di Maio) siano suoi alleati. E che Salvini si
possa giocare la carta dell’originale sempre da preferire alla copia. In
secondo luogo, l’evaporare della frattura tra destra e sinistra ha reso
irrintracciabile il centro. Quale sarebbe il centro il cui presidio è da
delegare alla componente di centro della coalizione? Quel centro non esiste più
e conseguentemente non esiste più la sinistra da tenere insieme costi quel che
costi.
Ammesso dunque che nelle elezioni di domenica prossima
per la scelta del segretario del PD si vada a votare per scegliere una linea
che dia chance al PD, non è certo la proposta di Zingaretti ad aver dimostrato
di funzionare. Con quella linea il PD va a sbattere. Esattamente il contrario
di quanto si va dicendo in questi giorni.
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