Lezioni americane per l'Italia, di Giorgio Armillei
Si accumulano letture e interpretazioni delle vicende USA
degli ultimi giorni. In perfetta sintonia con la frattura tra liberali e
populisti emerge un primo dato. I populisti di destra e di sinistra oscillano
tra minimalismo – i fatti di Washington sono poco di più che folklore da
contestualizzare nel momento storico americano – e massimalismo – abbiamo toccato
con mano quanto sia fragile la democrazia USA stressata da tre decenni di
globalizzazione liberista. I liberali di destra e di sinistra si ritrovano invece
nel cogliere con lucidità la delicatezza di questo momento, ben evidenziata
nello speech di Biden, e allo stesso tempo la solidità nonostante tutto delle
istituzioni politiche americane.
La polarità tra liberali e populisti torna utile anche per trarre
dall’esperienza USA di queste settimane spunti che se non possono ambire a
generare vere e proprie comparazioni, pur tuttavia sono ricchi di insegnamenti
per la situazione italiana. Insomma, i fatti di Washington sono una cosa seria:
abbiamo molto da imparare dalla pericolosa dinamica che li ha innescati e dall’architettura
costituzionale che li ha neutralizzati.
Trump e trumpismo hanno naturalmente una loro autonoma
consistenza e danno voce ad alcune parti buie della società americana. Tuttavia,
il deflagrare della loro carica eversiva non è un evento imprevedibile. Molti
sono stati i segnali che l’hanno preceduto, anche più remoti della campagna
forsennata per la delegittimazione del risultato elettorale, e molti sono gli
attori della scena americana che si sono assunti la responsabilità di non aver
fatto tutto quanto possibile per contenere il sovranismo populista di Trump.
In prima fila c’è naturalmente la parte moderata delle élite
e dei sostenitori del partito repubblicano. Difficile certo mettere la sordina
a un presidente selezionato dal ramificato sistema delle primarie, eletto
secondo le regole costituzionali, sostenuto da un largo consenso di opinione
pubblica e tutt’altro che sordo rispetto alle minoranze ideologizzate, anche se
in parte da collocare ancora dentro i confini costituzionali, che da decenni
conquistano spazio nel partito. E tuttavia i moderati – anche volendo tener
conto degli effetti politici di una fase in cui hanno visto ridursi di molto il
loro consenso – hanno scelto la strada fallimentare del romanizzare i barbari.
E così non hanno fatto tutto quanto avrebbero potuto, o lo hanno fatto troppo
tardi, per contenere Trump e ridare forza agli orientamenti liberali e pragmatici
del partito repubblicano. Si pensi al caso delle nomine alla Corte Suprema, al
di là delle qualità e delle caratteristiche dei candidati. Un errore che
dovrebbe far meditare i liberali moderati intrappolati in Italia in una
coalizione anomala con la gran parte del sovranismo populista di casa nostra.
In seconda fila troviamo la Chiesa cattolica nel suo insieme
e la Conferenza episcopale USA in modo particolare. Da qualche anno entrambe hanno
abbandonato ogni solido esercizio di discernimento ecclesiale sulla situazione
politica del paese - la famosa lettera sulla giustizia economica negli anni di
Reagan è un lontano ricordo - in cambio di qualche velleitaria dichiarazione
antiabortista della coalizione trumpiana. Una Chiesa erede, bisogna ricordarlo,
dell’ondata di nomine episcopali di Giovanni Paolo II, ormai largamente
rimpiazzate da quelle di Papa Francesco che non casualmente finiscono con il
coincidere con la vittoria di Biden. D’altra parte – per usare uno schema più
europeo continentale – le pulsioni clerico moderate finiscono quasi sempre con
un nulla di fatto, basti ricordare le dichiarazioni recenti di Ruini su
Salvini, ma soprattutto non fanno mai i conti con le conseguenze delle azioni
da loro determinate. Non sarebbe edificante dover concludere essendo costretti anche
in questo caso ad usare le parole di Papa Francesco in Fratelli tutti: “mi
rattrista il fatto che […] la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per
condannare con forza […] diverse forme di violenza”.
In terza fila si colloca il populismo di sinistra che non ha
mancato anche questa volta di far sentire la sua voce, non pago del suicidio
dei democratici nel 2016 e pericolosamente contiguo alla narrazione antiliberale
del suo gemello di destra. C’è da riflettere sul fatto che lo squad di Ocasio-Cortez
abbia cominciato a bombardare da sinistra le scelte di Biden e della sua
amministrazione, facendo da controcanto agli attacchi da destra, anche se
naturalmente maneggiando obiettivi e culture politiche assai distanti e non uscendo
mai dal perimetro costituzionale.
Da ultimo ma non perché meno influente, va affrontato il
tema delle regole di condotta dei social network. Prima che le spinte dirigiste
dilaghino – appoggiandosi su obiettive lacune del sistema, così come emerso
dalla competizione di mercato garantita dal quadro liberista degli anni di
Clinton – le Big Tech debbono trovare soluzioni più rigorose, più efficaci e
più trasparenti. Anche in questo caso abbiamo assistito a ravvedimenti tardivi,
dettati da logiche di riposizionamento più che da una autoregolamentazione
finalmente stringente. Insomma, il
modello dell’Oversight board di Facebook non basta. È forse giunto il momento
di una regolazione pubblica che imponga forme e strumenti di autocontrollo
indipendente delle stesse Big Tech.
Abbiamo visto all’opera il dark side del populismo
sovranista. È bene tenere a mente alcuni degli insegnamenti che scaturiscono
dalle immagini e dalle riflessioni di questi giorni. Non ultimo andando a
ripescare una riflessione tipicamente novecentesca: la relazione tra i fattori
psicologici e le dinamiche politico sociali, la relazione tra sistemi psichici
e sistemi sociali. In molti e autorevolmente hanno messo in rilievo nel secolo
scorso l’importanza dei tratti di personalità autoritari per dare conto delle
involuzioni autoritarie dei regimi politici, tratti nei quali si intersecano
etnocentrismo, antisemitismo e tendenza antidemocratica. La personalità
autoritaria è in altri termini e del tutto evidentemente un problema sempre
aperto per le democrazie liberali.
Non solo per questo ma vedendo lucidamente anche qualcosa
del genere – il “se gli uomini fossero angeli non ci sarebbe bisogno di un
governo” di Madison – i costituenti americani hanno messo insieme
un’architettura che divide le istituzioni di governo costringendole a
condividere l’esercizio dei poteri. A partire dall’apparentemente macchinosa ed
astrusa procedura per scegliere il Presidente. E lo hanno fatto per tutelare i
diritti di libertà e l’assetto costituzionale liberale. È questa la formula che
ha funzionato per oltre 200 anni, nonostante le non poche situazioni critiche,
e che abbiamo visto all’opera da ultimo in questi ultimi mesi trumpiani. Gli
schiaffoni dei giudici di tutti gli Stati, della Corte suprema, del Vice
presidente in carica, del leader del Senato, i no del Pentagono, i no dei Segretari
di stato degli Stati sotto pressione: questa è la forza di un regime liberale con
istituzioni separate che condividono poteri.
Volendo infine atterrare dalle nostre parti, l’attuazione della
conventio ad excludendum europeista che gode di un fondamento costituzionale
e non è il frutto di un’opzione politica di parte, si ispira allo stesso
principio: tutelare, grazie anche al correttivo presidenziale del nostro
sistema di governo, i diritti di libertà e l’assetto costituzionale del nostro
paese, costituito secondo una formula originale ed evolutiva dall’intreccio tra
il quadro istituzionale nazionale e quello eurounitario. E per il momento ha
funzionato, quantomeno nella sua componente di neutralizzazione. Dei suoi
risultati in termini di policy parleremo in un’altra occasione.
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