La visita senza senso di Macron a Xi. L’impossibile terza via tra Cina e Usa, di Vittorio Ferla


 

 

“Voglio trovare un senso a questa storia anche se questa storia un senso non ce l’ha”, cantava Vasco Rossi nella canzone Un senso. In tanti cercano di trovare un senso nella visita di Emmanuel Macron in Cina e nelle sue dichiarazioni rilasciate a seguito dell’incontro con Xi Jinping. Dichiarazioni indulgenti nei confronti del governo di Pechino, ma severe nei confronti della Casa Bianca. Che hanno scatenato reazioni piccate soprattutto oltreoceano, con la conseguenza di ritrovare uniti democratici e repubblicani americani nella diffidenza verso la Francia. Davvero Macron pensa che un atteggiamento morbido con la Cina possa spingere il governo del Dragone ad atteggiamenti più ‘comprensivi’ con Taiwan? O dobbiamo leggere nelle sue parole il disegno diplomatico di attribuire all’Eliseo un ruolo di mediatore e di pacificatore tra le parti? Forse Macron crede che la sua vecchia idea dell’autonomia strategica dell’Ue - concepita prima della guerra in Ucraina nel momento di massimo disimpegno degli Usa per via della politica isolazionista e nazionalista di Donald Trump - possa finalmente stimolare una politica estera europea comune? O più banalmente, in un momento di crisi interna, pressato dalle proteste di piazza e dalla ribalta dei partiti populisti di destra e di sinistra, il capo dell’Eliseo pensa di riconquistare consensi investendo sulla grandeur nazionale, opponendo ai sovranisti francesi un nuovo ruolo geostrategico per il suo paese? In ogni caso, può funzionare il doppio binario della diplomazia occidentale con gli Usa nella parte del poliziotto cattivo e la Francia nella parte del poliziotto buono?

Nelle interviste rilasciate a Politico e Les Echos, Macron afferma che “il grande rischio” che l'Europa deve affrontare è che "rimanga coinvolta in crisi che non sono le nostre, il che le impedisce di costruire la sua autonomia strategica”. Secondo il presidente francese, “la domanda alla quale gli europei devono rispondere è se è nel nostro interesse accelerare una crisi su Taiwan”. La risposta ovviamente è “No”. Poi Macron ha aggiunto che la cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dobbiamo diventare “followers” degli Stati Uniti su questo argomento, facendo dell'agenda statunitense un’agenda dell’Europa con il rischio di una reazione eccessiva cinese.

Purtroppo per lui, però, rilanciare il tema dell’“autonomia strategica” europea da una prospettiva militare sembra quasi surreale in un momento in cui solo sette dei 30 paesi alleati della Nato hanno raggiunto l'obiettivo di spesa militare del 2% del Pil fissato dall'Alleanza Atlantica nel 2022. L’autonomia strategica potrebbe anche essere una prospettiva sensata ma solo a condizione che tutti i paesi europei membri dell’alleanza siano disponibili ad assumere le loro responsabilità. Sappiamo, viceversa, che la nazione affiliata alla Nato che investe maggiormente nella difesa sono proprio gli Stati Uniti. La spesa media pro capite di tutti gli alleati, nel 2022, è pari infatti a poco più di mille dollari americani. Ma basta togliere dal computo gli Usa perché questo valore scenda a 526 dollari. Oltre agli Stati Uniti, solo la Norvegia, con 1.242 dollari americani pro capite, può vantare un apporto alle spese comuni superiore alla media dei paesi Nato. La supremazia americana nelle spese militari si apprezza ancora meglio se, invece di quelli pro capite, si prendono in considerazione gli investimenti complessivi. Nel 2022 l’amministrazione Biden ha speso qualcosa come 722 miliardi di dollari americani per la difesa. Il doppio della somma investita da tutti gli altri paesi della Nato messi insieme. Se poi si guarda all’emergenza Ucraina, gli Stati Uniti si confermano come il primo contributore mondiale al governo di Kiev in termini di aiuti militari, finanziari e umanitari. La spesa per il sostegno allesercito ucraino è la più alta mai stanziata dalla Casa Bianca. Secondo il Kiel Institute for the World Economy, un centro di ricerca indipendente con sede in Germania, lamministrazione Biden e il Congresso hanno mobilitato risorse pari a oltre 73 miliardi di euro, la cifra più alta, pari allo 0,367% del Pil. Se poi si calcolano gli stanziamenti non in termini assoluti, ma in rapporto al Pil, si registra l’importante apporto dei paesi che, non a caso, confinano direttamente con la Federazione Russa: al primo posto c’è lEstonia con l1,071%, seguita da Lettonia (0,975%), Lituania (0,652%) e Polonia (0,626%). Lo scenario è un po’ diverso se si guarda agli aiuti monetari dove gli Usa sono seguiti dal Regno Unito con 8,31 miliardi di euro totali e dalla Germania, primo paese della Ue, con 6,16 miliardi di euro. Insomma, numeri alla mano, l’opzione dell’autonomia strategica dell’Unione europea appare assai lontana dalla realtà. Né l’impegno della Francia nella crisi ucraina è tale da renderla un punto di riferimento per gli altri stati europei. Semmai sono gli stati dell’Europa orientale - quelli che conoscono e temono la storica vocazione espansionistica e autoritaria della Russia - a rappresentare il potenziale asse di difesa dell’occidente europeo. In più, a dispetto delle aspirazioni dell’Eliseo, la Francia come grande potenza mondiale è finita da più di un secolo. Certo, può contare su qualche testata nucleare e su un seggio al consiglio di sicurezza dell’Onu, ma sempre troppo poco, oggi, per competere con Usa e Cina. O

In ogni caso, da parte dell’Europea, pensare di rinunciare alla protezione statunitense per puntare sulla leadership francese è un argomento che può anche piacere a una certa intellighenzia antiamericana ma fa parte dell’ambito delle ingenuità sesquipedali.

C’è poi, ovviamente, un problema geopolitico legato all’argomento dell’interdipendenza globale. La crisi ucraina è ben presente nei pensieri di Xi Jinping come dimostrano non solo l’atteggiamento collusivo con Vladimir Putin ma anche il tentativo di Pechino - camuffato dal piano di pace - di esercitare un ruolo sullo scacchiere europeo dopo aver esteso i propri tentacoli economici e strategici in Africa (dove sta prendendo il posto dei paesi europei) e in Sudamerica (dove muove la concorrenza a Washington). Il motivo è semplice: l’Ucraina ricade nella faglia tra occidente democratico e oriente autoritario, il suo popolo e le sue classi dirigenti preferiscono nettamente il primo al secondo. Sul piano strategico, in questo delicato equilibrio, Taiwan è per certi versi più importante della stessa Ucraina. Non solo perché rappresenta politicamente un pezzo di occidente che, nell’Asia Pacifico, cerca di resistere all’espansionismo di Pechino, ma ancor più perché è diventata la centrale mondiale della produzione di chip, indispensabili per il funzionamento della tecnologia e dell'economia contemporanee. Tutto ciò lascia intendere che i buoni propositi verso la Cina di Emmanuel Macron non funzioneranno così come non hanno funzionato le sue telefonate a Vladimir Putin per scongiurare l’invasione dell’Ucraina.

 

Da Il Quotidiano del Sud

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