La trappola dell'elefante, di Giorgio Armillei

Nonostante una manovra di bilancio elettoralistica fatta di aumento di spesa corrente finanziato in deficit, nonostante le incertezze e la debolezza delle sue politiche securitarie, nonostante le sue tensioni interne, tutto ciò che abbiamo di alternativo alla maggioranza nazional populista è ancora alla ricerca di un segnale di luce, laggiù in fondo al tunnel nella quale si è cacciato. L’Italia del 6 marzo, come la chiama Marco Bentivogli, fatta di chi vedeva da tempo e di chi ha cominciato da allora a vedere i rischi delle politiche nazional populiste, non ha una linea, non ha un’ipotesi di aggregazione, non ha un leader. I nazional populisti hanno così progressivamente conquistato non solo la maggioranza parlamentare ma anche il centro dello spazio politico. Non il centro inteso come posizione equidistante tra le tradizionali destra e sinistra: hanno conquistato il centro delle aspirazioni dell’elettorato, abbattendo ciò che resta della distinzione tra destra e sinistra e confezionando un pacchetto di risposte populiste per quelle aspirazioni. Gli ingredienti sono quelli noti da tempo e perfettamente all’opera nella scrittura della manovra di bilancio: rifiuto delle politiche di stabilizzazione, rifiuto dei vincoli esterni e interni di compatibilità, politiche redistributive di schietto sapore assistenzialista: il tax and spend populista. L’interdipendenza mette i bastoni tra le ruote: per fortuna, mercati, Unione europea e BCE si fanno sentire. Ma come era facile prevedere dopo il voto del 5 marzo, siamo ancora lì: nazional populisti da una parte, istituzioni dell’interdipendenza europea dall’altra. I mercati lì accanto a fare il loro mestiere. Del resto non c’è traccia. Qualcuno – nel fronte liberale – fa ancora finta di non capire. E sogna di dividere la maggioranza di governo, supponendo che il fronte nazional populista non sia quello che è ma al contrario costituisca un’innaturale alleanza tattica. Ma se non vogliamo credere alle dichiarazioni solenni di un Bannon o di un Dugin – di certo interessati alla propaganda e non all’analisi - per i quali non ci sono molti dubbi nell’identificare nella maggioranza di governo un esempio di maggioranza nazional populista fatta di grandi convergenze e di piccole divergenze, crediamo alle analisi degli istituti di ricerca. Le “affinità elettiva” come le chiama Demos-La Polis sono evidenti. Il 35% degli elettori M5s sono contigui alla Lega a fronte di un 19% contiguo al PD. Il 39% degli elettori della Lega sono contigui al M5s. Solo la contiguità tra Lega e Forza Italia presenta (anzi, presentava a marzo 2018) valori superiori. Su temi come la spinta antipolitica, l’ostilità nei confronti dell’Unione europea, l’intervento pubblico nell’economia, la demagogia securitaria sull’immigrazione, ci troviamo di fronte ad elettorati complementari, così ci dice ITANES. Solo le politiche eticamente sensibili, l’area dei cosiddetti diritti civili, li divide. E per finire già da maggio l’Istituto Cattaneo ci dice che consolidamento delle organizzazioni di partito e ristrutturazione delle alternative programmatiche possono venire soltanto dalle nuove dimensioni di competizione – populisti vs liberali, sovranisti vs europeisti - non certo dall’ormai secondaria frattura tra destra e sinistra. Non ci sono dunque molti dubbi. Lega e M5s compongono una maggioranza e un governo coerenti con la gran parte delle loro posizioni di policy e con la gran parte delle aspettative, per quanto volatile, del loro elettorato. Sperare di dividerli inseguendoli sul loro terreno appare un’impresa inutile e dannosa. Ai danni del governo nazional populista non si pone rimedio inseguendone i protagonisti e le politiche. Non si pone rimedio legittimando il terreno politico sul quale hanno conquistato il centro dello spazio politico: occorre saper rovesciare il tavolo. Come hanno fatto a modo loro – e senza che nulla del loro modo possa essere ingenuamente importato – Macron, i Verdi tedeschi e in qualche forma lo stesso Mark Rutte in Olanda. Don’t think of an elephant scrive un famoso linguista a proposito della comunicazione politica. Se accetti il terreno dell’avversario hai già perso: lui controlla già quel terreno, ne ha preso il centro, appare come l’originale rispetto al tuo essere sbiadita copia. Eppure molti non sembrano averlo capito, in modi e forme diverse cadono nel tranello. E così andiamo dal “patritottismo inclusivo” di Mounk, uno degli autori più trendy in materia di “come difendere le democrazie liberali dell’attacco populista”, all’altrettanto perdente “capire la paura” di Carlo Calenda che fa da sottotitolo al suo recente libro. Uno strano libro nel quale – in modi che è difficile distinguere da quelli di un Tremonti o di uno Zingaretti – l’avversario non sembra più l’onda nazionalista, populista, identitaria, l’onda generata dalla politica della rabbia. No, l’avversario è l’anglosfera, sono Clinton e Blair, è la scommessa del riformismo liberale cristianamente ispirato. E alla fine non si capisce come con questi avversari non si possa non finire nelle braccia del populismo blended à la Corbyn. Di fronte agli errori, alle politiche sbagliate, ai danni provocati dal governo, l’Italia del 6 marzo non può certo perdersi nel labirinto delle microcorrenti del PD, nell’illusione del fronte repubblicano, nell’evanescenza di comitati civici da lanciare contro la corazzata nazionalpopulista. Questa Italia – che è viva e che è ancora largamente in grado di recuperare una buona quota di consensi finiti nella trappola del governo – deve ripartire da quello che ha per rigenerare a breve organizzazioni e leadership forti. L’Italia che si è illusa di poter fare a meno di organizzazioni e di leadership e che ha ostacolato con grande miopia chi le stava rigenerando, può ancora farcela.

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