La riforma della giustizia al tempo del governo giallorosso, di Giorgio Armillei

1.
Una politica (ancora) senza politiche
Ho cominciato a lavorare a questo intervento su richiesta di
Stefano Ceccanti quando il governo giallo verde era ancora in carica. Il
problema che mi si poneva, prima ancora dei contenuti di policy, era quello
della praticabilità politica delle proposte sulla giustizia penale, in
un quadro caratterizzato da un doppio e simmetrico populismo giudiziario. Un
pezzo di quel populismo non è più ora al governo ma la crisi di agosto ci
consegna uno scenario che nonostante il cambio di maggioranza resta difficile
per le politiche di riforma della giustizia in senso liberale.
Potremmo dire che quello che stiamo vivendo è ancora un tempo
di politics e non di policy. Con alcune importantissime eccezioni, ovviamente
decisive in questa fase - clima di cooperazione con il governo dell’Unione e
con i suoi stati membri; fine degli estremismi in materia di immigrazione e
infrastrutture - possiamo dire di avere in molti settori una politica senza
politiche.
Più che mai questo sembra aver valore per la questione
giustizia. La nuova maggioranza è ancora alla ricerca di un suo profilo sulle
policy. E si trova da subito a cercare di rovesciare o comunque cambiare
un’immagine di sé sui temi della giustizia che da un punto di vista liberale non
è una buona immagine. Si è visto fino ad oggi, per quel che conta, come il
grado di discontinuità rispetto al governo gialloverde sia molto ridotto. Anche
l’esito del vertice di governo Conte Bonafede Orlando del 27 settembre appare
decisamente continuista e certo non migliora quell’immagine. Per di più sul CSM
non c’è accordo e si respira un’aria non rassicurante. Ci sarebbe molta più sostanza nella
discussione parlamentare, al momento messa in stand by, sulla pdl
costituzionale di iniziativa popolare in materia di separazione delle carriere.
2.
Qualche dato
Il rapporto tra politica e giustizia e la tutela dei diritti
individuali nel funzionamento del sistema giudiziario sono settori di policy
nei quali, diversamente da quanto si legge spesso, si è fatto molto. Daniela
Piana[1] conta 104 interventi di
riforma dal 1989 al 2011. Dalla riforma del processo penale alla riforma
costituzionale sul giusto processo. Dai giudici di pace alle riforme Castelli e
Mastella. E poi: scuola superiore magistratura, riforma riorganizzazione uffici
PM, procedimento disciplinare con tipizzazione illeciti, valutazioni
quadriennali su conferimento incarichi direttivi e semidirettivi, funzioni e
passaggio di funzioni. E conta 9 interventi dal 2012 al 2015. Dalla
riforma della geografia giudiziaria alla riforma della responsabilità civile dei
magistrati, alla riforma fallimentare.
Eppure non siamo soddisfatti. Perché? Volendo mutuare una
vecchia formula dal dibattito sulla forma di governo – formula utile anche se un
po' schematica - si tratta di riforme che hanno toccato i rami bassi
del sistema, quelli organizzativi e gestionali. I rami alti, quelli
che toccano l’ordinamento costituzionale, sono sempre restati fuori dal tavolo,
con alcune importanti eccezioni: il principio del giusto processo, la riforma
dell’immunità parlamentare, e ancor più indietro la riforma del procedimento
per i reati ministeriali.
Possiamo perciò immaginare di ricavare la gran parte di
quello di cui abbiamo bisogno dall’art.111, sviluppandone la forza espansiva
liberale con interventi legislativi ordinari?
O viceversa è inevitabile distinguere e seguire due piste parallele: sui
rami bassi si lavora al perfezionamento della legislazione ordinaria, tenendo
conto dei diversi punti di vista della maggioranza ma senza mai scendere sotto
le garanzie dell’art.111 - per capirci, il blocco della prescrizione scende
sotto quel livello di garanzie; sui rami alti occorre una schietta e limpida
intenzione di procedere con maggiori gradi di libertà, verificando il possibile
senza censure preventive. Questo è il punto politico. Quanto il PD oggi
vuole e può spingersi in questa direzione? La pdl costituzionale di iniziativa
popolare sulla separazione tra giudici e PM è un primo banco di prova. Si
intravvede un’apertura sullo sdoppiamento del CSM che costituirebbe il primo
passo di una sorta di normalizzazione dell’anomalia italiana. Insomma, un
segnale positivo che potrebbe gettare una luce coraggiosa su tutto il resto.
3.
I rami bassi
Ci sono cose fa fare subito, sulle quali il PD dovrà
mostrarsi meno cedevole di quanto abbia fatto nella fase di formazione del
governo: bloccare l’entrata in vigore delle disposizioni sulla prescrizione
e sbloccare l’entrata in vigore delle disposizioni sulle intercettazioni.
Sappiamo quali sia l’estensione del fenomeno della
prescrizione.[2] Il 41% delle prescrizioni
scatta nella fase delle indagini preliminari. Il 75% dei procedimenti si
prescrive prima del primo grado di giudizio. Con grandi differenze
territoriali: e niente affatto secondo l’asse nord sud. Milano Palermo Lecce
Trieste sono al 10% mentre Venezia Torino Catania sono al 40%. A conferma della
crucialità della variabile organizzativa (le norme sono ovviamente le stesse)
per determinare le performance di un ufficio giudiziario. E quindi della
necessità di allineare le leve utilizzate per le riforme con le variabili
effettive del sistema.
Siamo così di fronte a
una questione di efficienza gestionale e di legalità costituzionale. Tenendo conto del fatto che il tema
della prescrizione non è affatto sovrapponibile a quello dell’efficientamento
del sistema processuale e dunque della riduzione della durata dei processi. “Costituzione alla mano, non sembra
automatico che si possa rinunciare alla prescrizione una volta fissate scadenze
temporali parametrate non al reato ma al percorso processuale.”[3] A questo proposito l’esito del vertice del 27 settembre desta molte
perplessità. Lo scambio improprio durata dei processi – prescrizione sembra
dominare lo schema di policy.[4]
C'è poi la riforma Orlando congelata. Riforma che andava nel senso del
riformismo liberale avendo introdotto tra le altre cose: il reato di
“diffusione di riprese e registrazioni di comunicazioni fraudolente”; una
maggiore tutela della riservatezza nelle comunicazioni tra avvocato difensore e
assistito; il divieto, già previsto, di attività diretta di intercettazione nei
confronti del difensore; il divieto di trascrizione, anche sommaria, delle
comunicazioni o conversazioni ritenute irrilevanti per le indagini;
innalzamento da cinque a dieci giorni del termine temporale attributo alle
difese per l’esame del materiale intercettato; ed altre.
Attenzione però. A proposito dei
famosi trojan, occorre distinguere tra estensione nell’uso (Conte 1) e
struttura dell’obbligo di motivazione (riforma Orlando). Secondo Salvatore
Curreri, ad esempio, l’obiezione maggiormente fondata sul piano della
conformità costituzionale della normativa in questione riguarda non già
l’estensione dell’ambito applicativo, prodotta dal Conte 1, ma un attenuato
obbligo di motivazione introdotto dal decreto legislativo 216 del 2017 (riforma
Orlando). “Con questa modifica si è stabilito che l’uso dei captatori
informatici è sempre consentito senza che il pubblico ministero debba dare
conto delle ragioni per cui ritiene che in quel luogo si stia svolgendo
un’attività criminosa, com’era invece previsto, in via generale, nella
precedente versione. È sempre richiesto il provvedimento del gip ma l’obbligo
di motivazione è attenuato, di conseguenza il ricorso ad uno strumento così
invasivo è reso più agevole”.[5]
L'intervento del governo Conte 1 ha ampliato il novero dei reati per cui è
possibile attivare la cimice mobile, estendendo il campo delle indagini per le
quali è consentito il ricorso al trojan come mezzo investigativo: reati contro
la pubblica amministrazione, rifiuti, falsi, ambiente, scambio-politico
elettorale.
Conseguenza politica: la riforma Orlando era già frutto di un compromesso tra tendenze diverse. Difficile pensare ora di poter arretrare. Le restrizioni sull’uso e la divulgazione delle intercettazioni non sono ad esempio sufficienti.
Un
solo dato: in Italia si intercettano più del doppio delle utenze telefoniche di
tre paesi messi insieme – Francia, Germania e Regno Unito – dove abitano in
tutto 212 milioni di persone. Nel 2012 abbiamo avuto in Italia[6]
124.713 intercettazioni telefoniche, in Francia 41.145, in Germania 23.678 e in
UK appena 3.372. L’andamento è da qualche anno in costante discesa (come quello
dei costi scesi nel 2017 a 168,8 mln) ma anche sottraendo le Procure più attive
(Napoli, Roma, Milano, Palermo, Catania) nel 2017 in Italia abbiamo circa
70.000 “bersagli”, più o meno tanti quanti Francia Germania e UK messe insieme. Sul punto la riforma Orlando non solo
andrebbe scongelata ma avrebbe bisogno di un’iniezione ulteriore di garantismo.[7]
Le criticità sono
ovviamente anche altre: vediamone tre. Il tema dell’esecuzione penale.
Nel documento finale degli stati generali dell’esecuzione penale si leggeva: “se non si
riesce a contrastare la diffusa convinzione che il carcere sia l’unica risposta
alle paure del nostro tempo e la corrispondente tendenza politica –
elettoralmente molto redditizia – ad affrontare ogni reale o supposto motivo di
insicurezza sociale ricorrendo allo strumento, meno impegnativo e più
inefficace, dell’inasprimento della repressione penale e della restrizione
delle possibilità di graduale reintegrazione del condannato nel consorzio
civile, ogni riforma normativa sarà fatalmente esposta a “scorrerie
legislative” di segno involutivo e “carcerocentrico”, che torneranno a
determinare sovraffollamento penitenziario e a minare la credibilità stessa
della funzione risocializzativa della pena.”[8]
Come si compone questa linea con quella rappresentata dall’espressione
“spazzacorrotti”? Giovanni Fiandaca scrive giustamente di un tempo di
ossessione repressiva, di populismo giudiziario, nel quale avanza l’illusione che
il “panpunitivismo sia il migliore rimedio a ogni male sociale. E questa
ossessione repressiva, lungi dal rimanere circoscritta alle forze
conservatrici, ha contagiato anche le forze progressiste.”[9]
C’è la questione della dimensione
organizzativa della qualità e dell’efficienza dell’attività giurisdizionale.
Come sappiamo le performance del sistema giustizia sono tutt’altro che in grado
di garantire eguaglianza di trattamento sul territorio nazionale. Anche in
questo caso le variabili da tenere sotto controllo vanno molto al di là di
quelle tecnico normative, come mostrano ad esempio i dati sulla clearance rate.
Ma può sussistere efficienza organizzativa senza ampliamento
dell’accountability dei decisori del sistema?
C’è la questione del sistema
elettorale per l’elezione della componente togata del CSM. Tutti a parole
vogliono mettere fine al correntismo ma non possiamo dimenticare la lezione dei
maestri: tendenze, fazioni e frazioni sono dinamiche fisiologiche quando si
mettono in moto meccanismi elettorali e dunque inevitabilmente si generano
aggregati organizzativi che servono a razionalizzare una competizione che
altrimenti diventerebbe atomistica e personalistica. La questione cruciale è
quale accountability far valere, ancora una volta come connettere potere e
responsabilità. Da questo punto di vista l’idea di introdurre un meccanismo di
sorteggio prima ancora che incostituzionale appare inopportuna e inefficace.
4. I rami alti
Il passaggio ai rami
alti richiede qualche premessa. Tra sistema politico e giudici i costituenti
disegnarono un equilibrio sul quale non poteva non pesare il medesimo complesso
del tiranno (l’espansione dei poteri dell’esecutivo) che condizionò le
disposizioni sulla forma di governo parlamentare. Ne venne fuori un compromesso
tra le istanze di autonomia e quelle di connessione con il potere politico,
tenendosi ben distanti da un lato dal modello dell’elezione popolare dei
magistrati e dall’altro dal modello oligarchico liberale dell’incardinamento
dei pubblici ministeri nel sistema della burocrazia ministeriale.
Nacque
una specie di modello misto nel quali si
sarebbero dovuti impastare autonomia della magistratura, influenza parlamentare
mediata dal CSM e ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica. Il
tutto dentro il dogma dell’unicità della natura giurisdizionale dell’attività
dei magistrati, quella delle Procure e quella dei giudici. Unico dunque è
l’ordine, unica la carriera (con passaggi dall’uno all’altro ruolo resi più o
meno difficili), unico il Consiglio superiore della magistratura chiamato a
governare il sistema, unico il mondo di riferimento professionale. A suggello
il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale per evitare di dover
rendere sindacabili le scelte di politica giudiziaria delle Procure. La partita
si chiuse così.
Nonostante
grandi costituenti si fossero spesi per soluzioni diverse, il taglio netto con
la tradizione liberale continentale e con l’esperienza del regime autoritario
sembrò imporre lo sbilanciamento verso il principio dell’autonomia della
magistratura, ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Al CSM
andarono così le funzioni di “vertice organizzativo di questo ordine”. Dalla
fine degli anni sessanta in poi, anche per reazione alla precedente fase di semi
subordinazione ai poteri politici, fase inclusa nel periodo del “congelamento
costituzionale” degli anni cinquanta nel quale molte previsioni della
Costituzione restavano lettera morta, queste funzioni furono lette in termini
sempre più espansivi, fino a far assumere al CSM un ruolo di indirizzo a forte
impatto mediatico, capace di generare veri e propri poteri di veto. È giusto
riconoscere che il Presidente Cossiga aveva le sue ragioni per lanciare allarmi
intorno a questa evoluzione – nonostante le conclusioni rassicuranti della
Commissione Paladin[10]
- e non bisogna dimenticare che i conflitti su questo punto cominciarono già
con la presidenza Saragat tra il 1968 e il 1969.[11]
A questo processo espansivo si sono affiancati una serie di fenomeni
che hanno contribuito a rendere incerto il quadro generale di riferimento. La
creazione delle correnti interne alla magistratura, una cosa del tutto
prevedibile in presenza di un’organizzazione complessa che richiede la
specializzazione delle funzioni di governo; l’uso di sistemi elettorali
generatori di frammentazione e di correntismo; l’attraversamento sempre più
consistente delle famose porte girevoli tra giustizia e politica; la presenza
spesso inopportuna - anche se ci possono essere ragioni di merito per
auspicarla - di magistrati negli uffici legislativi e nei gabinetti dei
ministri; il rifiuto di ogni meccanismo di governo e conseguentemente di
accountability dell’attività delle procure, anche ove fosse assistito da
opportune garanzie e muri di separazione dall’esecutivo; l’intreccio tra
partiti e CSM, anch’esso del tutto ovvio essendo il Parlamento ad eleggere una
parte del Consiglio.
Sul mondo dei rapporti tra
partiti e magistratura si sono poi abbattute altre scosse telluriche:
l’assunzione di un ruolo dominante della magistratura nella vicenda del
terrorismo interno degli anni settanta; l’azione penale di contrasto alla
grande criminalità organizzata negli anni ottanta; la vicenda manipulite e
l’abolizione del regime originario dell’immunità parlamentare; il populismo
giudiziario - da ultimo, solo da ultimo, quello del M5s - che ha generato un
lungo sciame sismico.
A fronte di questa storia
istituzionale, molti
sostengono che porre oggi la questione dello squilibrio tra autonomia e
responsabilità della magistratura, soprattutto dei pubblici ministeri, sia una
minaccia per la divisione dei poteri e apra la strada al rischio di involuzioni
illiberali. E le
posizioni illiberali dei populisti, per i quali la divisione dei poteri è un
impaccio, sembrano confermare questi timori. Il rischio è tuttavia l’ennesima
paralisi decisionale: un nuovo capitolo della saga del complesso del tiranno.
La domanda è: funziona ancora il compromesso
costituzionale costruito alla luce di una sorta di né sotto il governo né solo
autogoverno, né sola responsabilità, né sola autonomia? Si è generata
troppa indipendenza e troppo poca responsabilità? Possono bastare a disporre di
una sufficiente misura della seconda la valutazione di conferma e quando ne
ricorrono i presupposti la responsabilità disciplinare? Sono meccanismi in
grado di controllare ad esempio costi, benefici, valutazioni comparative delle
scelte discrezionali dei PM nella conduzione dell’azione penale?
A queste domande occorre rispondere riprendendo in mano
quattro dossier da tempo aperti nel dibattito pubblico, distinti ma tra loro strettamente
intrecciati tanto che la risposta a uno non può essere strabica rispetto a
quella agli altri tre. Abbiamo visto come i costituenti avessero a loro modo
tentato di evitare lo strabismo, muovendosi tra chi allora proponeva l’elezione
diretta dei giudici e chi la subordinazione dei procuratori al governo.
Primo dossier: separazione dei CSM. Se la magistratura come
ci dice l’art.104 della Costituzione è un ordine autonomo e indipendente, è
ragionevole sostenere che l’unità di questo ordine, inevitabilmente cementata
dai legittimi interessi elettorali per la scelta dei componenti togati del CSM,
non mini la terzietà del giudice, il giudice terzo e imparziale come dice
l’art.111 della Costituzione? E se non è ragionevole, come introdurre una separazione in
sede di autogoverno tra giudici e procuratori senza minarne autonomia e
indipendenza? Separazione ad esempio presente in Portogallo, in Spagna e in una
certa misura in Francia, cioè in tutti i sistemi a CSM. Insomma, da qualche
parte occorre tracciare un confine tra i “due mondi”.
Secondo dossier: azione penale discrezionale. È ragionevole
sostenere che il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale elimini ogni
margine per scelte discrezionali non controllabili? Anche Germania, Spagna e Portogallo
hanno abbandonato questa posizione limitando lo spazio dell’obbligatorietà. Se
non è ragionevole, come rendere accountable la scelta discrezionale delle
procure nel definire l’ordine di priorità e nel condurre l’azione penale,
rispettando autonomia e indipendenza previste dalla Costituzione?[12] Un problema che interrogò
a lungo un costituente come Piero Calamandrei, spingendolo a immaginare tra le
altre cose un Procuratore generale, scelto dal Presidente della Repubblica su
proposta della Camera dei deputati, membro di diritto del CSM che prende parte
anche al Consiglio dei ministri, legato da uno speciale rapporto fiduciario con
le Camere. Come scriveva Luciano
Violante dieci anni fa “poco conta che le indagini del PM abbiano di per sé una
ridotta attitudine probatoria. […] Conta solo che un PM si sia mosso e che
l’opinione pubblica ne sia stata informata perché si inneschi li circuito delle
rivelazioni, delle delegittimazioni, delle esecrazioni”.[13] Possiamo pensare che di
fronte a spunti di questo livello possa essere sufficiente il triangolo circolari[14] CSM, valutazioni, poteri
disciplinari per rendere efficace questa accountability?
Terzo dossier: separazione delle carriere. Se la Costituzione
e gli ordinamenti sovranazionali ci dicono che il processo si deve svolgere in
condizioni di parità e davanti a un giudice terzo e imparziale, è ragionevole
che magistrati dell’accusa e magistrati giudicanti intreccino in diversi modi
le loro carriere, con qualche fragile wall of separation? Che si formino e si coltivino
professionalmente nello stesso mondo? Solo l’Italia in nome dell’autonomia e
dell’indipendenza presenta questo assetto di completa indistinzione. E se non è
ragionevole, come fare in modo che i magistrati giudicanti non possano essere
soggetti a un’influenza di sistema da parte dei magistrati dell’accusa e
viceversa? È utile forse ricordare come la Corte costituzionale, nell’ammettere
il referendum promosso dal Partito radicale sulla separazione delle carriere,
riconobbe la separazione (allo stesso modo dell’unicità) come né preclusa né
imposta dalla Costituzione in questi termini: “La Costituzione, infatti, pur
considerando la magistratura come un unico "ordine", soggetto ai
poteri dell'unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio
che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o
di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni
giudicanti e a quelle requirenti”. Questa lettura costituzionale impone anche
di cominciare a dire una parola chiara sull’ambiguità della formula della
“cultura della giurisdizione”[15] che costituirebbe il bene
minacciato da qualsiasi forma di separazione e che ha dominato il dibattito
generando una sorta di “scomunica ideologica” per tutte le proposte di riforma.
Quarto dossier: magistratura e alta burocrazia. Autonomia e indipendenza sono
strumentali al mantenimento dell’imparzialità: è ragionevole ritenere
compatibile l’imparzialità con la possibilità di occupare posizioni di vertice
negli staff dei ministri e negli uffici di gabinetto, potendo poi ad
incarico terminato ritornare al proprio lavoro di magistrato? In una recente
ricerca[16] emerge che nel gruppo dei
gabinettisti più gettonato i magistrati sono il 67% del totale. E se non è
ragionevole, come introdurre gli opportuni meccanismi in grado di bloccare non
solo le revolving door tra magistratura e politica ma anche quelle altrettanto
inquinanti tra magistratura e alta burocrazia ministeriale?
5.
La strada davanti a noi
A fronte di questo panorama una cosa va subito detta: gli
strumenti scelti dalla riforma Bonafede del governo Conte 1 non erano quelli
giusti, erano insufficienti e in buona parte sbagliati. Dalle anticipazioni
di stampa emergeva – semplificando - una parte dedicata ai rapporti tra giudici
e carriera politica (non può rientrare in magistratura chi ha ricoperto
incarichi politici e chi si è candidato senza essere eletto è poi obbligato a
cambiare distretto di lavoro nelle sue funzioni di magistrato) e una parte
dedicata al governo dell’ordine giudiziario. I componenti togati del CSM poi sarebbero
scelti con un mix di elezioni e sorteggio, gli incarichi semidirettivi
sarebbero tolti al CSM e affidati agli uffici giudiziari apicali, ci sarebbe
una futura ennesima riforma delle circoscrizioni giudiziarie. Come si vede,
risposte insufficienti ai temi dei quattro dossier. Senza contare la
inopportunità del ricorso al sorteggio anche se in seconda battuta rispetto
alla prima fase elettiva. Come dice Fulco Lanchester, il sorteggio non supera
le obiezioni che derivano dalla mancanza degli “effetti positivi forniti dal
rapporto di rappresentanza e di responsabilità, generati dal procedimento
elettivo e assenti nel sorteggio”.[17] Nicolò Zanon e Francesca
Biondi aggiungono: “Una riforma costituzionale sarebbe necessaria anche se si
intendesse introdurre un sistema misto, ossia una selezione tra candidati
preventivamente selezionati tramite sorteggio, poiché si tratterebbe con
evidenza di un aggiramento della soluzione prescritta dalla Costituzione”.[18]
Giusto dunque resettare l'intero processo e stabilire i punti
di convergenza intorno a una possibile agenda di riforme, rimettendo in discussione le
decisioni del governo e della maggioranza precedenti che si collocano in
contrasto con la piattaforma minima predisposta dall’art.111 della
Costituzione.
La pdl costituzionale di iniziativa popolare per la
separazione delle carriere sposta l’attenzione sui “rami alti” costringendo
tutti a un riposizionamento. La pdl contiene luci e ombre. La direzione è giusta ma molte delle
soluzioni appartengono al campo della legislazione ordinaria e non al livello
costituzionale. Certamente però l’introduzione di due CSM distinti per giudici
e PM accoglie una delle esigenze richiamate dai quattro dossier, quella di
ridurre l’anomalia italiana della completa indistinzione.
C’è dunque da tenere la barra dritta sui rami bassi della
riforma, innanzi tutto per non arretrare; e in secondo luogo per allargare gli
spazi del riformismo liberale. E c’è da ingegnarsi per aprire un più ampio
cantiere di riforme dei rami alti, tenendo conto delle esigenze di sistema e
delle spinte garantiste che non sono certo seconde a quelle giustizialiste. Le
esigenze di tenuta della maggioranza non possono scardinare i pilastri della
politica riformista né tantomeno mettere in crisi la legalità costituzionale.
[1] Daniela Piana, Eguale per tutti? Bologna, il Mulino, 2016.
[2] Si sono succedute la L.
251/2005, con prescrizione pari al periodo di pena massima e comunque almeno 6
anni per delitti e 4 per contravvenzioni; la L. 103/2017, con sospensione della
prescrizione di 1,5 anni dopo la condanna in primo e in secondo grado; e la L
3/2019, con la prescrizione che si ferma dopo la sentenza di primo grado
(condanna o assoluzione).
[3] F. Morelli, Prescrizione
e tempo del processo: non si tratta di entità fungibili, in Forum
Quaderni Costituzionali, 22 febbraio 2019, il quale aggiunge poco dopo: “Occorre
fare pace con il dato per cui la prescrizione “garantisce l’impunità” (slogan
di questi giorni). È così, la prescrizione garantisce l’impunità (nel
linguaggio del giurista la “non punibilità”) solo quando, secondo la
valutazione della legge, punire è diventato ormai intollerabile e contrario al
rispetto della persona; quando, in definitiva, la punizione non è più
manifestazione del potere dello Stato di usare la forza per sanzionare i
comportamenti incriminati, ma rappresenta l’autorità arbitraria e cieca che
annienta l’individuo a proprio piacimento.”
[4] I dati per l’Italia (2016)
sulla durata media dei processi penali della Commissione europea per
l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (CEPEJ) indicano: 310
giorni per il primo grado, 876 giorni per il secondo grado e 191 giorni per la
fase in Cassazione, per un totale di 1377 giorni
[5] Intervista a Il Foglio, 14 giugno 2019. https://www.ilfoglio.it/giustizia/2019/06/14/news/il-trojan-nemico-della-privacy-e-anche-un-problema-per-la-costituzione-260347/
[6]
Fonte: elaborazione il Sole 24 ore su
dati Ministero Giustizia.
[7]
AA.VV. Nuove norme in tema di intercettazioni, a cura di G. Giostra e R.
Orlandi, Torino, Giappichelli, 2018.
[8] Ministero Giustizia, Stati generali dell’esecuzione penale,
documento finale, Roma, 2016.
[9]
G. Fiandaca, Prima lezione di diritto penale, Bari, Laterza, 2017.
[10]
Commissione presidenziale per lo studio
dei problemi concernenti la disciplina e la funzioni del CSM, Roma, 1991.
[11]
G. Di Federico, Da Saragat a Napolitano.
I difficili rapporti tra PdR e CSM, Milano, Mimesis, 2016.
[12] Indipendenza che ad
esempio manca nell’ordinamento tedesco, secondo la valutazione del CGUE
nella sentenza C-508/18 (Procura di Lubecca) a proposito delle
necessarie caratteristiche dell’autorità giudiziaria emittente di un mandato di
arresto europeo.
[13]
L. Violante, La parte giudiziaria del
sistema di governo, in Criminalia 2009, Pisa, ETS.
[14] Il CSM nella relazione
introduttiva alla Circolare sull’organizzazione degli uffici di Procura
(16 novembre 2017), quando tocca il tema dell’uniforme esercizio dell’azione
penale, puntualizza che “a legislazione vigente, l’individuazione dei criteri
di priorità è legittima solamente quando abbia l’obiettivo di fornire
un’adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già quello di consentire
al magistrato la scelta delle tipologie di reati da perseguire […] tale
individuazione, per risultare efficace, deve muovere dall’analisi di dati
oggettivi su base territoriale, costituiti, quanto meno, dalla qualità e dalla
quantità dei procedimenti pendenti”. Tenta così di sterilizzare ogni tratto di
discrezionalità. Resta evidente quanto questo tentativo risulti debole.
[15] “L’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di Pm, con la possibilità
di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica
carriera, mantenendo il P.M. nella cultura della giurisdizione, assicura la
finalizzazione esclusiva dell’attività degli uffici del pubblico ministero alla
ricerca della verità”, così la definiva l’ANM nel documento Proposte di riforma dell’ANM in tema di
ordinamento giudiziario”, in La
Magistratura, nn.1/2 2002
[16] G. Melis A. Natalini, Gli
uffici di diretta collaborazione: garanti del funzionamento del sistema
amministrativo ma freno della modernizzazione, Roma, ICAR, 2018.
[17] F. Lanchester, Il sorteggio in campo politico come
strumento integrativo dell’attività delle assemblee parlamentari, in Nomos,
2-2016.
[18] F. Biondi N.Zanon, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, in Quaderni Costituzionali, 2-2019
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