La riforma che manca alle riforme, di Giorgio Armillei
La discussione su come gestire (chi decide cosa) le
risorse del Recovery fund è tutta politica ma nasconde anche un enorme problema:
l’organizzazione della pubblica amministrazione statale, i suoi rapporti con
quella dell’Unione, i suoi rapporti con le pubbliche amministrazioni regionali
e comunali. Meglio parlarne anziché far finta di niente.
Conte aveva attivato la risposta apparentemente più semplice:
accentrare. Ora sembra averla rimessa nel cassetto, almeno in parte. Il punto è
che accentrare è sempre di più la virtù dei deboli. È indispensabile
indirizzare e valutare, non accentrare. Accentrare la gestione del Recovery
fund, accentrare la gestione della sanità, accentrare l’intervento pubblico
nell’economia e nelle imprese è il riflesso di una debolezza strategica e di un
istinto statalista sempre in agguato. Tanto che quando il paradigma
dell’autonomia si impone per così dire nei fatti, pensiamo allo smartworking
nella pubblica amministrazione, ogni leva di monitoraggio e valutazione finisce
per essere sacrificata alla gerarchia e al controllo. Il fallimento in questi
casi è così assicurato.
Non si può certo dire che negli ultimi decenni non si
sia tentato di riformare le pubbliche amministrazioni. Facendo anche pasticci,
come quello dell’ANAC, un “controgoverno" come lo definisce qualche
giurista, anziché un’agenzia indipendente. Quattro ministri negli ultimi 30
anni hanno lasciato la loro firma su consistenti pacchetti di riforma, mostrando
elementi di continuità e di rottura, conseguendo successi e insuccessi:
Cassese, Bassanini, Brunetta, Madia. Ancora oggi tuttavia le Raccomandazioni
paese della Commissione e del Consiglio per il 2020 rilevano almeno tre forti
lacune: la lunghezza delle procedure, tra cui quelle della giustizia civile, il
basso livello di digitalizzazione e la scarsa capacità amministrativa. Perché dunque
i cambiamenti che pure abbiamo avuto non producono un salto di qualità?
Lo storico Guido Melis individua tre possibili risposte.
Un eccesso di elitismo che non fa i conti con i rapporti di forza: ogni riforma
ha alleati e avversari. Una fiducia sproporzionata nei confronti delle virtù
riformatrici dei soli cambiamenti legislativi, come se il calcolo delle spinte
e delle controspinte in fase di implementazione non fosse decisivo tanto quanto
i cambiamenti legislativi stessi. Un approccio sbagliato, o meglio
consensualistico, che parte dal personale e dall’organizzazione anziché dalle
funzioni e dagli obiettivi delle pubbliche amministrazioni.
In giro per l’Unione europea e nell’ambito OECD le
esperienze sono diverse, non tutte di successo, forse migliori nei paesi a
common law rispetto a quelli di civil law, e non si tratta certo di una
coincidenza. Molte criticità però sono comuni. A cominciare da quella sul
implementation gap che mette insieme sistemi con caratteristiche molto diverse
tra loro, dal Canada alla Finlandia. Passando poi alla difficoltà con cui
vengono valutati gli impatti concreti delle riforme, oltre i provvedimenti
legislativi e anche oltre quelli amministrativi di attuazione, cercando di
andare a vedere cosa cambia effettivamente: è così dalla Germania, agli Stati
Uniti, alla Nuova Zelanda che pure vanta un invidiabile grado di successo nelle
riforme implementate. L’accentramento e l’approccio top down dal centro alla
periferia non funzionano, come dimostrano il caso francese per il regime del lavoro
nelle pubbliche amministrazioni e al contrario il successo della
decentralizzazione svedese. Non sempre l’esternalizzazione di funzioni dai
ministeri alle agenzie ha funzionato: ancora il Canada, l’Unione europea, l’Olanda
al contrario dei buoni risultati della Gran Bretagna. Non si riescono ad
applicare con successo i modelli aziendalistici di management come segnalano
quasi tutti i casi nazionali. Convertire l’auditing amministrativo e
finanziario in auditing sulle performance è un’altra impresa essenziale ma
difficile: il Belgio e con limitati risultati la Finlandia, sembrano più
avanti, la Svezia più indietro. La Germania ha avuto un buon successo nello
sperimentare processi di riforma che partono da casi pilota di successo poi
replicati. Insomma il contrario di riforme generaliste e orizzontali buone per
tutti, dai ministeri alle amministrazioni comunali.
In questo contesto la variabile del consensualismo
richiamata è forse quella determinante per spiegare insuccessi e limiti del
caso italiano. E dunque escogitare strumenti e politiche per fare meglio. La
riforma delle pubbliche amministrazioni è una tipica politica nella quale i
costi che creano scontento sono concentrati, essenzialmente nell’area
dell’impiego pubblico, dei suoi apparati e in parte in quella dei fornitori esterni.
Al contrario dei benefici che sono invece diffusi: il miglioramento delle
prestazioni e la riduzione dei tempi riguardano più o meno tutti. Chi subisce i
costi ha interessi comuni che si organizzano. Chi beneficia delle riforme resta
allo stato diffuso e non organizzato. Intuibili le conseguenze in termini di
consenso politico.
Il decisore pubblico non può ovviamente fare a meno del
consenso. Ma esistono sistemi politici capaci più di altri di neutralizzare i
poteri di veto dei gruppi di interesse, creando così condizioni istituzionali
favorevoli ai processi di riforma. Ancora una volta politics e policy non
possono essere gestite separatamente. Senza una politics incorporata in
istituzioni che consentono decisioni in qualche caso anche contro gruppi di
interesse non ci sono policy di riforma amministrativa che tengano. Questa è la
lezione che serve anche per le discussioni di questi giorni. Senza riprendere in
mano i fili delle riforme istituzionali per una democrazia governante,
soprattutto dopo la riduzione del numero dei parlamentari, l’efficienza e la
responsabilità nella gestione del Recovery fund rischiano di essere
un’illusione.
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